Il pensiero di Chesterton – La ragione 9 – Il paradosso: un varco sul Mistero
Se la ragione, allargati tutti i suoi confini, scopre che non sono sufficienti a contenere la sintesi più ampia, che rimane nel Mistero, la soluzione più ragionevole resta ciononostante tenere stretti entrambi i termini contraddittori, senza cedere alla tentazione di sciogliere la contraddizione censurandone uno e affermando solo l'altro. E' questa una apertura scomoda che la ragione fatica a tenere, per questo occorre per mantenerla la familiarità al meccanismo del paradosso.- Autore:
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Il metodo pedagogico di Chesterton è sempre quello di invitare i suoi lettori a fare un passo indietro, all'unico scopo di fargli abbracciare un orizzonte più vasto e prendere coscienza di qualcosa che proprio per la sua enormità, non entrando completamente nel nostro campo visivo, rischiava di sfuggirci. Per restare nell’immagine del passo indietro, il paradosso è una sorta di vigoroso spintone che ha lo scopo di farci fare il dovuto passo indietro.
Il paradosso pedagogico è tale in una duplice maniera; innanzitutto perché tramite esso la ragione procede veramente nella sua conoscenza: il paradosso si scioglie colla identificazione di un analogo che unifica i due termini che sembravano in opposizione, e il segreto movimento del paradosso è lo stesso del sillogismo, una sintesi; pensare infatti è connettere l'esperienza in un giudizio. Il paradosso è il motore del sillogismo e la sua riprova, perché tramite esso la ragione rimette in gioco le sintesi già acquisite e procede a nuove sintesi più ricche. Il paradosso pedagogico è tale però anche in una seconda accezione, è pedagogico in quanto introduce al paradosso in senso stretto, il paradosso dottrinale. Mentre nel primo tipo di paradosso la contraddizione è solo tra l'enunciato paradossale e l'opinione comune, nel secondo tipo abbiamo a che fare con una affermazione che è paradossale in quanto contiene realmente in sé una contraddizione. Il paradosso pedagogico è Auberon Quin che siede sul cappello di Barker perché egli comprenda quanto è sciocco togliersi il cappello per salutare (paradosso sprecato perché Barker è troppo preoccupato del suo cappello per essere libero di interrogarsi sul significato del suo essere schiacciato); c'è però un paradosso più grande, ed è Adam Wayne.
Nel paradosso dottrinale la contraddizione non è solo apparente, ma reale, e la ragione è incapace di identificare quel termine medio, l'analogo, capace di operare la sintesi tra i due termini contraddittori. Un paradosso di questo tipo è il paradosso della natura umana, che Chesterton enuncia in “Ortodossia”, per esempio, in connessione alla dottrina della caduta, dicendo:
“Qualunque cosa io sia non sono io”. (GKC, Ortodossia, pag. 216)
Nello scontro dei due termini univoci, io e non-io, ciascuno dei due illumina l'altro. L'io cessa di essere quella datità unica, monolitica, aproblematica che potremmo essere indotti a ritenere senza tuttavia sciogliersi nella distruttiva dissociazione che il non-io implicherebbe. I due termini coesistono illuminandosi a vicenda, dal loro attrito reciproco nasce una comprensione più piena della natura umana.
Quando però si tratti di sciogliere il paradosso identificando l'analogo, la ragione cozza contro la propria impotenza a rendere ragione del paradosso. Essa può certo proporre come analogo un concetto quale "ambiguità". L'ambiguità essenziale dell'uomo tiene dentro il suo essere uno pur non essendo pienamente sé stesso. Analizzando però ciò che pensiamo nel termine "ambiguità", scopriamo che essa non dice molto di più di quanto dicesse la coesistenza di io e non-io. Dire che la natura umana è ambigua è dire che è paradossale; il pensiero non è andato avanti nella sua sintesi: ha marciato sul posto. Un altro paradosso dottrinale è l'essere relativo delle cose, che non esistono pienamente in quanto non esistono da sé e tuttavia non sono un puro nulla; il concetto di Essere o Dio è l'analogo che scioglierebbe il paradosso, la dialettica di essere e nulla, ma è un concetto solo negativo. Dire che le cose esistono perché partecipano all'Essere, mettendo l'accento sull'Essere, ma che non consistono in sé perché partecipano all'Essere, mettendo l'accento su partecipano, può dare l'illusione di aver capito: quando però vogliamo definire l'Essere non partecipato, non diciamo nulla di più, se non che esso non è l'essere partecipato che è l'unico che conosciamo. Il nostro è di nuovo un concetto solo negativo, che nulla aggiunge realmente alla nostra comprensione. Definire l’Essere è sempre tautologico.
L'esistenza del mondo e la natura umana si aprono alla ragione come due paradossi centrali e irrisolvibili. Solo una ragione allenata al paradosso saprà qui respingere la tentazione di rigettare uno dei due corni della contraddizione, e accettare di tenersi in equilibrio sul fragile filo della contemporanea affermazione di due termini che si escludono a vicenda. Una ragione realmente ragionevole non accetterà quindi di censurare qualcuno dei dati del reale, e non accetterà proprio perché sono dati reali e il reale, come dicemmo è quella cosa su cui possiamo riposare anche se sia illogica, solo perché c'è. Quindi la ragione non concluderà con i materialisti che il mondo consiste in sé stesso e ha in sé il proprio principio esplicatore, né affermerà con lo scettico che esso è un puro nulla; non giudicherà come l'ottimista che l'uomo è buono in sé stesso, né lo riterrà irredimibile come sostiene il pessimista. Come una finestra spalancata sul sole come sulle nubi, alla ragione è chiesto di restare spalancata in contemplazione del paradosso.
Se la ragione, allargati tutti i suoi confini, scopre che non sono sufficienti a contenere la sintesi più ampia, che rimane nel Mistero, la soluzione più ragionevole resta ciononostante tenere stretti entrambi i termini contraddittori, senza cedere alla tentazione di sciogliere la contraddizione censurandone uno e affermando solo l'altro. E' questa una apertura scomoda che la ragione fatica a tenere, per questo occorre per mantenerla la familiarità al meccanismo del paradosso.