2 - Comunità ed autorità

L'educazione in alcuni romanzi di Chaim Potok
Autore:
Acerbi, Clemi
Fonte:
CulturaCattolica.it

La comunità

La comunità, abbiamo detto, è come un alveo in cui il singolo viene aiutato nel suo cammino; esercita anche una forte attrattiva.
Ne Il dono di Asher Lev, Asher, pittore ormai famoso in tutto il mondo, che aveva stabilito la sua dimora in Costa Azzurra, torna a Brooklin con la moglie e i due bambini per il funerale dello zio e viene ospitato dai genitori. La moglie, che aveva attraversato le terribili traversie degli ebrei europei e aveva perso tutta la sua famiglia, si trova qui a suo agio e ritiene che per i bambini valga la pena fermarsi più a lungo di quanto programmato: «Qui c’è la comunità e il rebbe», ripete per convincere il marito.
Ma la comunità può creare anche tensioni e problemi, perché spesso ha una mentalità ristretta, conformistica, e se una persona ha una particolare personalità o vocazione essa tende a rifiutarla. La comunità è veramente un aiuto quando è guidata da una valida autorità, da un rebbe che si potrebbe definire un “santo”.

L’autorità

Il rebbe “santo” è in grado si risolvere o sbloccare le situazioni difficili che si possono creare. Egli non solo guida la comunità nel suo insieme, ma vigila paternamente sulla vita di ciascuno, tutti si rivolgono a lui per ogni decisione ed egli non esita a convocare le persone con cui desidera conferire. E spesso si dimostra “creativo”, assumendo decisioni che spezzano il conformismo della comunità: essa si scandalizzerebbe se tali decisioni non venissero appunto dal rebbe.
Il rabbino Saunders spiega a Reuven e Danny, al termine di Danny l’eletto, il suo comportamento che tanto aveva disorientato e fatto soffrire Danny. Anche lui era stato educato nel silenzio. Quando fu in grado di capire, suo padre gli chiarì che
«lo tzaddik, a preferenza di ogni altra persona, deve avere la conoscenza del dolore. Lo tzaddik deve saper soffrire per la sua gente, disse. Deve toglierle il dolore e reggerlo sopra le proprie spalle. Deve reggerlo sempre. (…) Anche quando balla e quando canta, deve piangere per le sofferenze della sua gente. (…) Non volevo allontanare mio figlio da Dio, ma non volevo che lui coltivasse una mente senz’anima. Fin da quando era bambino sapevo già che non sarei stato in grado di impedire alla sua mente di indirizzarsi verso il mondo in cerca di conoscenza. Sapevo in cuor mio che questo lo avrebbe probabilmente dissuaso dal prendere il mio posto. Ma dovevo impedire che lo alienasse del tutto dal Signore dell’Universo. E dovevo ottenere la certezza che la sua anima sarebbe stata l’anima di uno tzaddik indipendentemente da ciò che lui avrebbe fatto nella sua vita. (…) Pensi che io sia stato crudele? (…) Forse è vero. Ma lui ha imparato. Il mio Daniel faccia pure lo psicologo. So che vuol fare lo psicologo. Non vedo, forse, i suoi libri? Non vidi le lettere delle università? Non vedo i suoi occhi? Non sento piangere la sua anima? Naturale che lo so, lo sapevo da un pezzo. Faccia pure lo psicologo, il mio Daniel, adesso non ho più paura. Sarà uno tzaddik per tutta la vita. Sarà uno tzaddik per il mondo. E il mondo ha bisogno di uno tzaddik.» [1]
Alcuni giorni dopo Saunders comunica alla comunità riunita in sinagoga che Daniel non gli succederà ma farà lo psicologo. La decisione suscita scalpore, ma poi tutto si quieta.
I metodi educativi del rabbino Saunders possono lasciare perplessi o indignati, ma uno psicologo capace di capire e condividere la sofferenza degli altri non ha una formazione trascurabile.

Il rebbe de Il mio nome è Asher Lev e Il dono di Asher Lev è una splendida e luminosa figura, capace di far trasparire l’amore di Dio per il suo popolo e per ogni individuo. Lavora indefessamente e riceve nel suo studio anche nel cuore della notte. Ispira una sorta di timore reverenziale. Ben presto viene a sapere del dono di Asher e dei problemi che esso comporta. La sua soluzione spiazza tutti: non solo il ragazzino prenderà lezioni di pittura, ma andrà nientemeno che dal più grande artista che vive a New York: Jakob Kahn, un ebreo non osservante che però ha conservato l’amicizia e la stima del rebbe. Pretende però, potremmo dire in cambio, che Asher studi il francese e, dopo qualche anno, anche il russo. Non solo perché un grande artista deve viaggiare, ma anche per un altro motivo, che egli spiega così al ragazzino:
«Ti dico cosa mi disse una volta mio padre, possa riposare in pace. I semi devono essere seminati dappertutto. Solo alcuni daranno frutti. Ma non ci sarebbero i frutti dei pochi se non ne fossero stati seminati i molti» [2].
Seminare con larghezza, anche fuori dai confini prevedibili: anche questo è un utile suggerimento per l’educazione.

L’insegnamento

Nei romanzi di Potok insegnare non è mai qualcosa di spersonalizzato, finalizzato ad un apprendimento teorico o tecnico. Quando Jakob Kahn accetta di insegnare ad Asher, non gli fa lezione, ma lo accompagna: gli fa fare certe cose importanti per la sua formazione, gli dà dei suggerimenti, gli assegna dei compiti, poi lavorano insieme, ciascuno alle sue cose, valutano insieme i lavori, vanno insieme a vedere mostre di altri artisti. Addirittura trascorrono insieme le vacanze al mare.

Può essere interessante il confronto, per contrasto, con le vicende di Leon Shertov, ne Il medico di guerra [3]. Quando è un giovane soldato ebreo, durante la prima guerra mondiale e poi la guerra civile, ha modo di constatare il violento antisemitismo che permea l’ambiente che lo circonda e gli viene a mancare il coraggio di dichiararsi ebreo, tanto più che il suo villaggio e la sua comunità vengono completamente distrutti. Invitato, dopo il successo di alcune operazioni, ad entrare nella polizia, gli viene anche cambiato il nome, che rivela troppo apertamente le sue origini (si chiamava Kalman Sharfstein). Segue un corso di istruzione per i funzionari della polizia segreta sovietica che dovranno condurre gli interrogatori. In questa attività farà poi carriera. Così egli ricorda quel corso:
La scuola si trovava in un edificio in pietra all’interno di un complesso alberato e recintato fuori Mosca. In mezzo ad alti pini invernali, abeti e querce, accanto a un laghetto ghiacciato, lontano da occhi estranei, eravamo in ventidue a studiare le molte debolezze del corpo e della mente umani. Giorno e notte apprendevamo la rigorosa scienza delle indagini, dell’arresto, dell’interrogatorio, della persuasione e della confessione; i metodi per indurre impotenza o sconcerto; come aggiungere terrore a terrore. (…)
Da istruttori esigenti, ma non brutali, imparammo a maneggiare bastoni, fruste, manganelli e altri strumenti. Tutto ci veniva insegnato in modo professionale e noi studiavamo sodo per dominare le diverse tecniche.
Per quanto mi era dato capire, nessuno di noi poteva essere definito un sadico. Una volta un istruttore anziano parlò brevemente dell’estetica del dolore. «A detta di alcuni, a volte la sofferenza crea grande bellezza. Sostengono che per provare piacere nell’infliggere dolore è necessario torturare. Be’, quelli che dicono ciò sono dei porci degenerati, dei cani rabbiosi che vanno abbattuti. Noi non siamo qui per provare piacere, ma per compiere un dovere»
[4].
Come si può notare, in questo tipo di insegnamento manca del tutto il rapporto personale. La scuola è isolata, vi si apprendono concetti astratti, una rigorosa scienza, tecniche e metodi. È il sistema migliore per produrre perfetti aguzzini.

Per tornare al problematico rapporto tra Rav Kalman e Reuven, esso mette in luce che cosa può contare nel rapporto tra maestro e discepolo. Durante l’esame per l’ordinazione rabbinica, Reuven mette in atto il metodo di affronto del testo che aveva appreso dal padre e che Kalman detesta, e diventa in un certo senso maestro del suo professore. Questi resta molto colpito e infine non può che dare al giovane la sua approvazione. Così in seguito gli motiva la sua decisione:
«Ascoltare e veder applicare il metodo di tuo padre è ben diverso dal leggerne meramente le parole… Una voce… ci vuole una voce per dargli vita… (…) Un tempo avevo degli allievi che parlavano con tanto amore della Torah, da farmi udire il Cantico dei Cantici nella loro voce. (…) Non avevo più udito il Cantico dei Cantici da… da… (…) Non avevo più udito il Cantico dei Cantici in America finché non ho udito la tua voce agli esami. Non le tue parole, ma la tua voce. Le parole non mi sono piaciute. Ma la voce…(…) Il metodo di tuo padre è ghiaccio quando lo si vede sulla carta stampata. Non possiamo stampare il nostro amore della Torah. Ma lo si può ascoltare in una voce.» [5]
L’insegnamento dunque consiste principalmente nella voce che dà vita a quanto si insegna, ovvero che comunica quello che si vive, per noi l’amore a Cristo. Quelli che hanno avuto il bene di ascoltare don Giussani, per esempio, sanno che cosa vuol dire.

Note

[1] Chaim Potok, Danny l’eletto, Garzanti, 1990, p. 350-353.
[2] Chaim Potok, Il mio nome è Asher Lev, Garzanti, 1996, p. 243.
[3] In Vecchi a mezzanotte, Garzanti, 2001.
[4] Chaim Potok, Il medico di guerra, in Vecchi a mezzanotte, Garzanti, 2001, p. 101.
[5] La scelta…, p. 336-337.