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L’esperienza del divino nelle poesie di Saffo

Autore:
Morani, Moreno
Fonte:
CulturaCattolica.it

Abbiamo visto, in un precedente intervento, le modalità con cui l’uomo pagano cerca di rapportarsi al divino attraverso la preghiera. E pur con tutti i limiti e le incertezze di un mondo ancora privo della Rivelazione, talvolta dà prova di una sensibilità straordinaria nella sua percezione del divino.
Propongo ora un altro esempio con un componimento di Saffo. Quella di Saffo è una delle voci più straordinariamente ricche di freschezza e sensibilità del mondo antico. Il fascino della sua voce poetica nasce dalla naturalezza con cui la poetessa si esprime. Saffo sa cogliere gli elementi essenziali di una descrizione o di un’emozione e collegarli fra loro, senza ricorso né a immagini insolite né a espedienti retorici: le sue sono le parole del linguaggio quotidiano: non ha bisogno di evocare, perché semplicemente “dice” quello che sente e quello che vede. E’ quanto in sostanza notava giù un critico letterario dell’antichità, l’ignoto autore di un breve trattato intitolato Il sublime. Della poesia di Saffo non ci rimangono che pochi brandelli, tanto che persino la scoperta, abbastanza recente, di una decina di versi finora ignoti è un avvenimento sensazionale, perché nel pochissimo che possediamo ogni nuovo elemento, anche minimo, è un’aggiunta notevole.
Nella raccolta delle poesie di Saffo messa insieme dagli antichi al primo posto c’era una preghiera ad Afrodite, la dea greca dell’amore, identificata dai Romani con Venere: è l’unico componimento di Saffo che possiamo leggere nella sua completezza ed è un documento di grande interesse poetico. La poetessa, infelice per un amore non corrisposto, richiede alla dea quell’aiuto che solo lei può darle. Riportiamo il testo dell’ode in una versione che cerca solo di essere il più possibile fedele all’originale:
«Afrodite immortale dal pensiero cangiante, figlia di Zeus, tessitrice d’inganni, ti prego, non prostrare con pensieri e tormenti, o venerabile, il mio animo, ma vieni qui, se mai anche un’altra volta udendo la mia voce da lontano mi ascoltasti, e lasciando la casa del padre giungesti da me aggiogando un carro d’oro: veloci passeri leggiadri ti conducevano sulla nera terra con fitto battere d’ali dal cielo attraverso l’etere. E rapidamente giunsero. E tu, o beata, sorridendo col tuo volto immortale mi chiedesti perché soffrivo e perché ti avevo invocato di nuovo e che cosa desideravo massimamente nel mio animo turbato: “Chi di nuovo devo convincere a tornare al tuo amore? Chi, o Saffo, ti fa del male? Perché se ti sfugge, presto ti inseguirà, e se non accetta doni, anzi te ne farà, e se ora non ti ama, presto ti amerà anche contro il suo volere”. Vieni a me anche ora, e scioglimi dai dolorosi affanni, e ciò che il mio animo desidera che si compia, compilo e siimi alleata».
Tre elementi vorremmo sottolineare di questo componimento.
Il richiamo alle prerogative del dio, elemento d’obbligo all’inizio della preghiera, è presente, ma non evoca azioni eroiche o straordinarie, bensì le caratteristiche del suo modo d’agire: il modo imprevedibile e tortuoso con cui la dea opera, facendo nascere passioni che non sono corrisposte e portano all’uomo più sofferenza che gratificazione. L’enumerazione delle proprie benemerenze manca del tutto: Saffo non confida nell’aiuto della dea in grazia della propria devozione o della fedeltà ai culti, ma perché ha già sperimentato la sua potenza e la sua vicinanza.
La descrizione della dea (per esempio il carro d’oro trainato da passeri) richiama certamente immagini collegate col culto e con la rappresentazione tradizionale del dio. Ma vi è un elemento in più: quel sorriso con cui la dea si presenta alla poetessa che la invoca, un elemento che conferisce all’invocazione-rievocazione una tenerezza e un’intensità tutta nuova. Vi è come un’idea di complicità: l’ode si apre con l’umile invocazione dell’orante che non ha altra speranza che l’aiuto degli immortali (“ti prego”) e si chiude con un’altrettanto umile, ma fidente richiesta non solo di vicinanza, ma, come già detto, addirittura di complicità (“siimi alleata”): questo desiderio di complicità indica quanto il pagano percepisca la presenza del divino e agogni di potere averlo accanto a sé.
Infine, la preghiera è motivata dal fatto che già un’altra volta Saffo ha goduto dell’aiuto e dell’assistenza della dea: Saffo è certa che la dea può aiutarla, perché ha già sperimentato nella sua vita la vicinanza della dea. La dea si è già presentata a lei, l’ha già confortata e aiutata: è un dialogo fitto che la dea intrattiene con la poetessa, e viceversa. Inoltre la dea può trasformare in modo completo e rapido (sull’idea della rapidità vi è una forte insistenza nel componimento) la difficile e tormentosa situazione presente: il suo aiuto permetterà di andare ben al di là delle aspettative attuali: chi ti fa penare, adesso rifiuta i tuoi doni, ma presto te ne farà: adesso ti sfugge, ma presto verrà a cercarti.
Completo quanto detto richiamando un altro componimento(purtroppo frammentario e danneggiato nel testo), in cui Saffo chiede ad Afrodite di scendere dal cielo per stare con lei: è un’ulteriore testimonianza di quel dialogo fitto fra dea e poetessa a cui ho accennato. La presenza della dea si colloca in un paesaggio incantevole che sembra accordarsi con la presenza di una divinità: quello che gli storici delle religioni definiscono come l’esperienza del numinoso: un oggetto o un ambiente che in modo spontaneo e naturale evoca la presenza, seppure indistinta, di una divinità. Nel mondo greco vi è spesso coerenza fra il dio e la natura: questa è in pace e rassicurante, quando il dio è presente e amico, mentre è tesa e per così dire sbigottita, quando il dio si rende presente per manifestare negativamente la sua potenza o portare messaggi dolorosi. (La traduzione sistema tacitamente alcuni problemi testuali che rendono incerti un paio di passaggi).
«Scendi dal cielo e da Creta vieni qui da me in questo sacro tempio, dove vi è un leggiadro sacro bosco di meli e dentro di esso altari che fumano d’incenso. L’acqua fresca riecheggia fra i rami dei meli e il luogo è tutto ombreggiato di rose, e allo stormire delle fronde si concilia il sonno. All’interno, un prato pascolato dai cavalli fiorisce di boccioli primaverili, e i venti spirano dolcemente. Qui tu, o Cipride, prendi un’anfora e con gesti aggraziati mesci in tazze d’oro nettare infuso di letizia».
Sono dèi falsi e bugiardi quelli dei pagani, sono ombre anche ingannevoli e spesso infide, ma permettono all’uomo greco di percepire un’eco di quella voce divina che non si è manifestata e non ha parlato loro in modo diretto.

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