Giona, II tappa: Il Dio della Parola
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Giona e la Balena
Il tentato suicidio di Giona viene vanificato dalla provvidenza di Dio. La fuga di Giona giunge al termine, il Signore lo riagguanta attraverso un terzo misterioso messaggero: un grosso pesce.
Fin dai sei giorni della creazione - commenta il Midrash - quel pesce era stato destinato a inghiottire Giona; poiché è detto «Ma il Signore dispose che un grosso pesce inghiottisse Giona» (Gn 2,1). Ed egli entrò nelle sue fauci come un uomo entra nella grande sinagoga e restò in piedi [là dentro]. E i due occhi del pesce erano come vetrate che davano luce a Giona.
L’annotazione midrashica, così suggestiva, ci dà modo di scandagliare più a fondo questa scena.
Il grosso pesce, che nell’immaginario popolare è diventato una balena, (anche grazie alla celebre opera di Melville Moby Dick, la balena bianca) è il mostro primordiale, simile al Leviatan di Giobbe, è simbolo del caos acquatico delle origini in cui ancora non era risuonata la parola. È interessante notare che il nome della città a cui Giona era inviato, Ninive, era espresso in assiro con un segno cuneiforme indicante una casa e un pesce. (È possibile tracciare una coordinata tra Giona e Noè, anche Noè compì questo viaggio dentro il caos acquatico delle origini mediante l’arca che era ad un tempo una barca, quindi una sorta di pesce, e una casa).
Giona entra nel pesce come in una casa, una casa che è alle origini della sua vita e della sua missione, una grande sinagoga come interpreterà il midrash; un pulpito secondo un’interpretazione cristiana che ha trovato riscontro nell’architettura sacra.
«Nella Slesia e in Boemia si possono ammirare strani pulpiti a forma di balena. Verso la parte absidale della chiesa si eleva una gigantesca costruzione finemente scolpita, che spalanca le fauci verso la comunità. Ed è proprio dalla bocca mostruosa che il predicatore tiene l’omelia alla comunità… In alcuni casi il predicatore per salire sul pulpito deve passare attraverso il ventre della balena» (H. W Wolf, Studi su Giona, Brescia 1982, p 135).
Pulpito e sinagoga a ben vedere si sovrappongono alzando un lembo sul mistero del silenzio di Giona nel capitolo precedente. Qual è l’origine della vita e della missione di un profeta se non la parola? Una parola che uscendo dalla bocca del profeta ha però la sua radice nell’Eterno, in Colui che è la Fonte stessa della Parola? La parola creatrice ardeva sulla lingua di Giona e lo spingeva verso Ninive, lì avrebbe trovato la sua origine (il pesce) e lo scopo della sua missione (la casa), ma il profeta rifiuta la parola e perciò tace, e il suo silenzio è un silenzio di morte. Se infatti ogni parola che viene da Dio, come è ogni parola pronunciata dai profeti, è atto creativo, rinnegare quella parola, impedirle di vivere è un atto che ingenera morte. È il destino di ogni profeta: o parlare pronunciando Parole di Dio che generano vita, o tacere ingenerando morte.
Perciò ecco l’applicazione neotestamentaria della balena di Giona: il sepolcro:
«come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra» (Mt 12,40 e ss).
Gesù applica a se stesso la sorte del profeta per indicare come ogni uomo, di ogni generazione è Giona, tentato di mettere a morte la Parola, di uccidere la creatività di Dio e la sua volontà salvifica, scandalosa all’uomo. E come Giona, vero profeta nonostante la sua fragilità e disobbedienza, non poté uccidere la Parola, ma anzi nel momento stesso in cui credette di averla uccisa gettando se stesso in mare, le diede vita entrando nel grembo della balena come in una sorta di grembo materno; allo stesso modo, il popolo di Dio, vero popolo di Dio sebbene infedele e incredulo, non potrà uccidere il Cristo, Parola del Dio vivente. Anzi nel momento stesso in cui Gesù sarà messo a morte e posto in un sepolcro diventerà per tutti il segno evidente della Creatività e della Vitalità della Parola, mediante la sua Risurrezione.
Ma c’è un altro aspetto interessante legato alla balena. Il midrash parlava di occhi come di vetrate che rendevano possibile a Giona uno sguardo nuovo sul mondo. Gli occhi della balena davano luce.
Melville nel suo libro sulla balena bianca fa notare come siano particolari gli occhi di questo enorme mammifero. La loro posizione infatti non è centrale come quella degli altri animali, ma è separata: sicché la balena deve vedere una scena distinta da un lato e una scena distinta dall’altro: mentre tutto in mezzo deve essere per lei tenebra e profondo nulla. Che succede allora? … È possibile che… essa riesca a esaminare attentamente due visioni distinte, una da una parte e l’altra da un verso esattamente opposto? (H. Melville)
Queste due visioni distinte e simultanee sono simbolicamente parlando il modo di vedere di Dio. Dio vede e conosce la travagliata storia umana, ma contempla in essa simultaneamente il suo compimento pieno. L’esempio dell’arazzo è sempre efficace: l’arazzo col suo rovescio tormentato da trame, nodi e passaggi di fili è la realtà vista dagli occhi umani; il diritto, ordinato, preciso, pieno di armonia e di colore è la storia vista da Dio, il tutto compiuto già realizzato in pienezza. L’uomo - e ancor più il profeta - che non si sforza, mediante la fede, di tenere unite queste due immagini perde il senso del presente e vede nero davanti a sé come la balena. Giona ripudiava il suo passato, non voleva più essere profeta e fuggiva dal futuro, rappresentato da Ninive, veniva così a perdere il senso del suo presente consegnandosi in balia di un destino burrascoso, come la tempesta che lo aveva sorpreso sulla nave diretta a Tarsis. Giona non viveva l’attimo presente perché incapace di tenere legato passato e futuro al nodo dello sguardo divino, unico in grado di tenere unite nel presente le due prospettive.
Il salmo che nel testo di Giona vediamo inserito a questo punto, celebra esattamente questa discesa del profeta nella comprensione più profonda di sé e delle cose. Egli vede il cuore del mare e le radici dei monti. Vedendo il cuore del mare, Giona ha compreso in quale disordine cade l’uomo che si allontana da Dio, ha conosciuto che il vero inferno per l’uomo è perdere quella comprensione di sé che solo in Dio può trovare pienamente, ma, incontrando le fondamenta dei monti, egli ha visto le fondamenta di Gerusalemme, questo infatti è il senso dato all’espressione nei salmi. Scorgere le fondamenta della città di Dio significa contemplare la storia, il mondo, la vita, ordinata secondo il progetto (la città) di Dio.
Da questa visione opposta e simultanea, rinasce la preghiera, rinasce la parola: Giona pregò il suo Dio: Adempirò il voto che ti ho fatto la salvezza viene dal Signore (Gn 2, 2.10). Giona è restituito al suo presente: Ninive, la volontà di Dio. Ora è pronto per la nascita, o meglio per la rinascita alla sua vocazione iniziale: E il Signore comandò al pesce ed esso rigettò Giona sull’asciutto (Gn2,11).