Il jazz è più bello quando "ha una storia da raccontare"

Uno dei più bei luoghi comuni della cultura jazzistica delle origini ammonisce: "Pay your dues to sing the blues" (se vuoi cantare il blues devi pagare il dovuto). Si può fare il jazz con ciò che si vuole... ma il suono non sostituisce mai una storia che quando è presente è quasi sempre autobiografica.
Autore:
Segagni, Enrico
Fonte:
CulturaCattolica.it

Cosa significa che il jazz è più bello quando ‘ha una storia da raccontare’“? Così una cara amica reagisce a quanto scritto in precedenza. Ora non ci si può tirare indietro! Infatti molti appassionati di jazz sono testimoni auditori di esecuzioni impersonali, tecnicistiche, a volte gelide persino negli “standard”. In alcune musiche è percepibile un vuoto, un’assenza assoluta di sentimento, di qualcosa di vero. Ciò accade perché manca una MEMORIA, qualcosa che è accaduto prima (nel precedente articolo ad esempio parlavamo di radici...). Vorrei ricordare una definizione di un grande maestro di vita, Mons. Luigi Giussani: “il sentimento è l’inevitabile stato d’animo conseguente la conoscenza di qualcosa che attraversa o penetra l’orizzonte della nostra esperienza.“ (da “Il senso religioso“). Il musicista sa che il sentimento non te lo regala nessuno; ha un prezzo: quella memoria. Uno dei più bei luoghi comuni della cultura jazzistica delle origini ammonisce:
Pay your dues to sing the blues“ (se vuoi cantare il blues devi pagare il dovuto). Si può fare il jazz con ciò che si vuole: con i suoni campionati, con le atmosfere... ma il suono non sostituisce mai una STORIA che quando è presente è quasi sempre autobiografica. La “storia da raccontare” è l’ingrediente indispensabile perché è ciò che coincide con l ‘originalità, con l’ORIGINE appunto, ciò di cui siamo fatti! Mi viene in mente l’indimenticabile Albert Camus: “Tutto il lavoro di un uomo non è altro che un lento cammino per scoprire, attraverso le vie dell’arte, quelle due o tre grandi e semplici immagini in PRESENZA delle quali il suo cuore si è aperto per la prima volta“. Come mi piacerebbe ora farvi scorrere le immagini “musicali” di alcuni importanti fotografi del jazz! Due su tutti; uno italiano: Giuseppe Pino, ed uno americano: Larry Fink. Si capirebbe molto di quanto detto sopra. C’è un libro bellissimo di Ashley Kann che è una intervista a John Coltrane (sax tenore e soprano) registrata nel 1958 e che ha per titolo: “A Love Supreme“(dall’omonimo album); intervista nella quale Coltrane riferisce: “Penso che molti musicisti siano interessati alla verità. Dev’essere così, perché fare una affermazione musicale significa dire la verità. Se suoni un brano e si tratta di qualcosa di valido, allora è di per sé qualcosa di vero. Se invece suoni qualcosa di falso, tu lo sai che è falso (ridendo). Voglio dire, tutti i musicisti lottano per avvicinarsi alla perfezione, e in questo c’è verità. Quindi, per suonare certe cose, per suonare cose in cui c’è verità, uno deve vivere nella verità quanto più gli è possibile...”. La cosa più interessante di questa forma espressiva che è il jazz, come già dicevamo, è lo stretto rapporto che lo lega alla realtà. In questi anni, in alcuni momenti di audizione guidata abbiamo ascoltato descrivere gioia, dolore, morte, ma anche la frenesia umana, i profumi della primavera, il comportamento degli animali, la vita, l’amore, l’amicizia profonda. Il potere descrittivo-realistico del jazz è impressionante. Ieri sera riascoltavo dal CD “One quiet night“ di Pat Metheny (2003) il brano n. 3 “Don’t know why“(Non so perché) eseguita solamente con una chitarra baritono dai toni molto profondi. Ascoltate se ve ne capiterà l’ occasione, il vostro cuore si compiacerà! Da ultimo un libro piacevole scritto da Studs Terkel: “I giganti del jazz“ (Sellerio, pag. 253, € 10). Attenzione! Questo scrittore ha vinto il premio Pulitzer nel 1985. Prof. fatelo leggere ai nostri ragazzi!