Il problema della sofferenza 3 - Non rassegnazione ma educazione del desiderio
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Si può parlare di educazione alla sofferenza? E come reperire un significato per essa?
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Non parlerei di “educazione alla sofferenza”, cambierei registro, proprio perché il discorso che vogliamo fare non è assolutamente quello del dolorismo, come usava un tempo quando si diceva che bisogna accettare, bisogna rassegnarci. No, è il contrario, qui il problema non è la rassegnazione ma è una umana capacità di affrontare una situazione di fondo dell’esistenza, e possibilmente camminare anche alla luce di una risposta. Al posto di “educazione alla sofferenza” userei quest’altra formula: “educazione al desiderio o del desiderio”.
Mi sembra questo il punto che troppo spesso è tenuto nascosto. Per capire bene questo punto è importante riprendere la distinzione che facevamo tra dolore e sofferenza.
Il dolore è l’effetto di una disfunzione, quindi qualcosa cui si può provvedere, ad esempio una malattia, ma è solo un aspetto della sofferenza. È l'aspetto appunto oggettivabile affrontabile, attraverso una misurazione, una quantificazione, attraverso delle strategie operative che permettono di rimediare. Si tratta di mezzi importanti, per cui ringraziamo sempre la medicina che oggi sa fare cose che una volta neppure ci si sognava. E non c'è da ringraziare solo la medicina: ci sono molte altre strategie, quelle sociali , che organizzano la vita civile affinché essa sia più sopportabile. Ma questo aspetto oggettivabile della sofferenza che è il dolore non è assolutamente sufficiente a se stesso, anzi non esiste mai da solo in se stesso. Anche se si tratta di un dolore fisico, il soggetto che lo vive fa anche l'esperienza della sofferenza, che potremmo definire come il provare uno stato di schiavitù, riecheggiando una formula di Simone Weill molto pregnante. Questa dimensione non è oggettivabile, non è oggetto di nessuna strategia tecnica dentro, attorno o insieme alla cosa che non funziona, che posso anche analizzare. C’è un di più che è l‘esperienza del soffrire. Che cosa è ? Appunto lo stato di schiavitù, il fatto che ci sia una cosa che mi viene imposta, che diventi una sorta di cappa di piombo sulla vita perché mi fa domandare: ”Ma che senso ha? Perché? Che cosa ho fatto?”.
Quando capitano grandi guai nella vita ci si chiede: ”Che cosa ho fatto di male perché mi dovesse capitare una cosa simile?” Si avverte che è come tutta l’esistenza che va in crisi. Perché non dovrebbe essere così, questo è il punto!
Tutto quello che sto dicendo evidentemente è ciò che non c’è in una vita animale, noi diciamo che gli animali soffrono ma non è propriamente vero, gli animali patiscono e portano il dolore fisico che può capitare e che noi infliggiamo loro (e quindi, giustamente, se avessimo senso umano dovremmo capire che queste nostre creature viventi hanno diritto anch’esse a evitare il patimento del dolore). Ma questo non vuol dire che l‘animale soffre, perché è differente dall’uomo, in quanto non si pone questa domanda, non è in grado di riflettere sulla cosa (la sofferenza), la patisce soltanto, non si domanda perché non ha il senso del suo essere schiavo.
Ma se cerchiamo di capire che cosa ci dia la sensazione di essere schiavi, scopriamo il lato positivo di tutta la faccenda: l’uomo soffre perché desidera, perché è un essere desiderante. Potremmo dire, forse troppo sbrigativamente, che l’uomo desidera la felicità, il che vuol dire che l’uomo, bene o male più o meno consapevolmente, ha comunque un’idea di una qualche riuscita intera complessiva di se stesso, cioè ha il senso della propria totalità umana e della propria totalità soggettiva come integra, come sviluppo complessivo della capacità umana, come armonicamente disposta nel mondo, come amica della realtà. Questo è l’oggetto del desiderio fondamentale dell’uomo, che è esattamente l’origine della sua sofferenza, è per questo desiderio che la disfunzione ha come alone, come eco, come risonanza dentro la vita questo senso di schiavitù, questo senso di blocco, di qualcosa di molto più grande dell’oggetto di dolore: la nostra sofferenza, è il nostro desiderio contraddetto. Il nostro desiderio contraddetto è lo scandalo che ci differenzia dagli animali. Essi, quando una cosa non riesce vanno da un’altra cosa, cercano di fronteggiare la difficoltà, hanno le loro strategie di difese e di attacco. Forse la tecnologia ci vorrebbe così, come esseri calcolanti in termini di utilità o meno. Ma l’uomo non è fatto in questo modo, questo è il punto. È disumano pensare di affrontare le difficoltà della vita soltanto attraverso la strategia, perché il problema è che mentre faccio questo, dentro pulsa la domanda: “Ma perché è così?”; “E se la cosa poi non riesce, che ne è di me?” Dove il “me” significa: “E il mio desiderio dove va a finire?”. Ecco questo è il punto. Io credo che una prima verità della sofferenza sia anzitutto il capire la radice di desiderio che essa ha.
Si può far tacere questo desiderio (che vuol dire abolire il senso della felicità) e cercare di ridurre tutto a dolore. In questo modo si perde la coscienza di sé, si diventa come una macchina che deve provvedere a risolvere problemi, deve inventare dispositivi, ma non è in grado di porre la questione del senso.
D’altra parte la sofferenza resta anche dove il “problema” del dolore è risolto. Perché, anche se è passata, la mia vita è stata ferita comunque e c'è la domanda. Trasferire tutto sull’aspetto della capacità di affrontare la questione dal punto di vista delle sue risoluzioni è l’evidente sconfitta di una idea grande di uomo. Il primato attribuito alla modalità tecnica, in prima istanza positiva, è in realtà tragica. C’è il problema radicale del senso di ciò che ci capita, soprattutto del negativo che ci capita nella vita e per tutta la vita .
Un autore del ‘900 francese come Léon Bloy, ha delle pagine molto belle su questo tema quando dice che senza la sofferenza, senza l’esperienza della sofferenza, se vogliamo possiamo dire senza essere capaci di soffrire cioè di interrogarci sulla sofferenza, l’uomo non sarebbe in grado di esplorare parti, angoli per così dire, dimensioni della sua esistenza, della sua anima. E questa è la cosa verissima, che tutte le esperienze di sofferenza che sono vissute, e non sono semplicemente disperate, registrano, manifestano, spesso in un modo clamoroso. Cioè come si suol dire, la sofferenza fa maturare la vita. Perché? In che senso? Non perché la sofferenza in sé sia una bella cosa, ma perché, proprio in quanto ci fa toccare con mano, attraverso il negativo, il desiderio positivo che ci abita (abita in noi), ci costringe a prendere atto delle dimensioni interne del nostro vivere e ce ne fa vedere la vastità. La vastità è la vastità del tutto dell’esistenza che chiede una risposta. Reggere la domanda nei confronti della sofferenza significa reggere la domanda nei confronti del desiderio. Riuscire a guardarlo in faccia! O, meglio, sentire che siamo abitati da questo impulso profondo alla vita e alla vita buona , alla vita riuscita, e alla vita armoniosa! È l’idea dell’armonia del tutto che noi siamo e del tutto in cui siamo. Perché se anche noi risolvessimo ogni piccolo o grande dolore, il resto del mondo perde senso, se risolviamo la situazione che ci disturba ma poi non realizziamo un’armonia di convivenza con tutto e tutti, che cosa ce ne facciamo?
Allora il problema, in realtà, del singolo dolore mi interessa perché è parte di quel tutto. Se sgancio il senso di dolore dal tutto cui partecipa, e io mi ci attacco, divento anche maniacale della cosa , fissato sulla cosa e ossessionato dalla cosa, non vedo più il contesto e soprattutto non innesto nessuna dinamica di guadagno della vita, di domanda.