Ibrahim Rugova 3 - Storia di un'educazione al perdono e all'amore

Autore:
Salvoldi, GianCarlo
Fonte:
CulturaCattolica.it
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LA FIGURA DI IBRAHIM RUGOVA

Non aveva ancora due anni quando nel 1945 i comunisti delle brigate della sicurezza jugoslava (Ozna) gli uccidono il padre, che combatteva nell'esercito albanese per la liberazione e l'autonomia del Kosovo. Il nonno andava alla ricerca del corpo del figlio, fino a quando decise di lasciar stare chi era ormai morto per "dedicarmi al nipote che la Provvidenza mi ha dato". Il nonno, invece di educarlo alla vendetta, come sarebbe stato normale e doveroso secondo i canoni della sua società, gli ripeteva sempre: "Tuo padre non è stato ucciso dal popolo serbo, ma dall'esercito comunista serbo". La famiglia Rugova, ufficialmente musulmana, educa il futuro presidente nonviolento ai valori fondamentali dell'antica religione cristiana, e cioè il perdono e l'amore. Ritengo che questo dato biografico, che nessuno racconta perché imbarazzante, sia il più importante della vita di quest'uomo, perché si riflette su tutto l'arco della sua vita, e ci permette di leggere in trasparenza il senso dei suoi comportamenti e delle sue scelte, anche di quelle che sembrano "impolitiche". Credo che la vita di Rugova sia inscindibilmente intrecciata a quella del popolo Kosovaro e che esse si riflettano l'una nell'altra partendo dalle radici culturali per svilupparsi negli eventi sociali e politici di cui parleremo e tendere verso un esito finale che forse sarà comune.
Quando la Serbia di Milosevic azzera la classe politica del suo Paese, Rugova e gli intellettuali si trovano a doversi sobbarcare il compito, non scelto e molto gravoso, di svolgere azione di supplenza alla politica, lavorando nel campo culturale e sociale. Anche di questo bisogna tener conto quando si valuta il gruppo dirigente dei nonviolenti: sono stati chiamati a furor di popolo a svolgere un mestiere che non era il loro. Rugova aveva studiato alla Sorbona di Parigi con Roland Barthes, con il quale aveva approfondito la relazione potere-sapere, pubblicando nel 1980 il testo "La strategia del senso": considera la letteratura l'unica possibilità di resistenza. In quegli anni dovrà prendere coscienza del ruolo che il popolo chiede di assumere a lui e agli intellettuali, per cui inizia ad operare in modo tale da essere espulso dal Partito comunista con la grave accusa di nazionalismo. Quando nasce la Lega democratica del Kosovo, egli ne diventerà il leader e conseguirà vittorie elettorali schiaccianti e a ripetizione. Sono queste vittorie - che danno la misura di quanto fosse condivisa e vincente la sua proposta - che gli permettono di procedere sulla strada della nonviolenza, pur avendo troppe entità interne ed internazionali che la ostacolavano o che comunque non ne hanno saputo cogliere forza ed opportunità.
Come già detto molti hanno giudicato la nonviolenza di Rugova come debolezza.
Ma costoro non hanno mai riflettuto su un fatto clamoroso che invece dice quanto fosse moralmente alta la proposta di Rugova, e quanto fosse politicamente la migliore e l'unica praticabile. Mi riferisco al fatto che nella fase drammatica del sorgere dell'esercito di liberazione del Kosovo e dell'inizio della lotta armata nel 1998, gli effettivi erano 25.000. Ad un certo punto quell'esercito si trovò assediato nelle città che aveva liberato, e gli effettivi si erano ridotti a 3.000. Se non ci fosse stato l'intervento delle forze Nato, l'Uck sarebbe stato liquidato. Era esattamente questa l'analisi di Rugova, e la sua giustezza l'hanno dimostrata i fatti. Quindi anche su questo punto io considero Rugova non debole ma grande. Ma se è così, allora si conferma sulla scena internazionale l'errore dei protagonisti della guerra del Kosovo.
Di conseguenza si può tranquillamente dare un giudizio positivo anche della stretta di mano di Rugova a Milosevic: quando ormai erano le armi che parlavano egli andò a Belgrado per un estremo tentativo di dar voce alla trattativa. Il gesto era clamoroso e le sue immagini fecero il giro del mondo: per i fautori della guerra quella era la prova che il Presidente aveva ceduto al nemico e stava tradendo il suo popolo. Dopo quelle immagini egli scomparve per un lungo periodo, di fatto prigioniero dei Serbi, e alla fine andò in esilio a Roma.
Fu per lui un dolore grande, che lacerava anche il suo popolo. Ricordo che in quei giorni fui chiamato da amici kosovari emigrati in Europa per uno spettacolo ed un comizio in Piazza della Scala a Milano. Quando citavo Rugova dalla folla si levava un osanna, e quando citavo Uck era un altro osanna. Il popolo voleva il suo leader nonviolento e insieme un esercito che lo difendesse. Nello spettacolo teatrale si vedevano ragazze kosovare nei loro splendidi costumi tradizionali che danzavano sulle loro musiche gioiose, e poi le stesse ragazze irrompevano sulla scena in tuta mimetica e scarponi: tutte e due le scene suscitavano entusiasmo grande, mentre io ero raggelato.
Nel 1994 ero in visita a Prishtina come componente della Commissione difesa della Camera, e Rugova ci disse: "E' ora che il mondo si accorga che i Kosovari sono ignorati da tutti ma vivono. Dite all'Europa che noi non chiediamo né pane né armi, ma il sostegno alla nostra lotta democratica nonviolenta". Era un appello a tutte le istituzioni internazionali in errore, e concludeva: "La guerra non è inevitabile".