93 secondi prima del botto
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(E. Montale, Prima del viaggio)

Non cambia niente, lo so.
Lui è morto, e con lui i 150 passeggeri che erano a bordo dell’Airbus A320 della Germanwings, che il 24 marzo si è schiantato sulle Alpi francesi.
Cosa volete che cambi, sapere che 93 secondi prima del botto Andreas Lubitz, il copilota, ha cercato di deviare la rotta? Ci ha ripensato. Ha tentato una manovra manuale, ma il pilota automatico è rimasto inserito. Lo rivela il giornale tedesco Bild, citando il rapporto Bea sul disastro. Una manovra evidentemente inutile. Per lui, per le persone che erano a bordo.
Non cambia niente, lo so, la divulgazione di quanto emerso dalle indagini e dalla scatola nera. Si ipotizzava fosse stato lui, scientemente, a far precipitare l’aereo, ed è vero. Che nello schianto volesse portare con sé anche un pezzo di mondo, ed è vero. O che, come in un delirio di onnipotenza, volesse far passare alla storia il suo nome. Vero.
Quella manovra all’ultimo non cambia la realtà, lo so. Raccontare che c’è stato un tentativo in extremis di deviare la rotta non riporta in vita i morti, non alleggerisce le responsabilità di questo giovane. Eppure…
Eppure non riesco a togliermi dalla testa quei 93 secondi. Un barlume di lucidità? Pentimento? Paura della morte?
Non lo sappiamo, non lo sapremo mai.
Mi fa pensare, però, che in un profilo psicologico complesso come quello che ci è arrivato dalle interviste ai conoscenti, dalle indiscrezioni sui media, dentro una pianificazione al dettaglio (persino, forse, il diuretico nel caffè del comandante, perché si assentasse dalla cabina)… in questo suo piano di morte si è insinuato questo minuto e mezzo.
Raccontarlo non cambia nulla, forse.
Ma l’uomo è questa roba qui, questa complessità qui. Questa volubilità, se volete.
E sarebbe bene, no, sarebbe realistico tenerne conto.
Lo dico a chi sventola la bandiera dell’autodeterminazione senza se e senza ma e vuole farci mettere nero su bianco oggi la nostra dichiarazione di fine vita.
«Se mi capita, voglio che stacchino la spina. Specifichiamo. Voglio che mi facciano morire di fame e di sete, piuttosto che vivere una vita che oggi mi pare indegna.»
Io me lo immagino Andreas Lubitz, 27 anni, angosciato per le sue crisi depressive, le visite mediche, i certificati, la paura di non poter più volare… Lo vedo, aggrovigliato nella sua rabbia e nei suoi segreti, architettare il piano, scegliere il volo, pianificare ogni momento.
Tutto era pronto, tutto stava andando per il meglio, esattamente come previsto. Aveva firmato a modo suo la dichiarazione di fine vita.
Ma la morte è una cosa seria, ed è menzogna definirla “buona”. Ci sei accanto e tra te e lei può intrufolarsi l’im-previsto: l’istinto di sopravvivenza, o il rimorso, o un ripensamento, o la paura. E ti ritrovi attaccato alla vita anche se non è quella che avresti voluto, anche se, prima, ti pareva facesse schifo.
Di quei 93 secondi sarà un Altro, non la storia – che si basa sui fatti e non sui pensieri – a tener conto, se lo vorrà. Eliminare però quel minuto e mezzo non possiamo, non sarebbe corretto.
Esiste, negli umani, questa possibilità. Lo sappiano, i signori della “dolce morte”. Fino all’ultimo si può cambiare idea, questa storia lo conferma. Fino all’ultimo. E contra facta non valet argumentum.