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Corinna e Fulvio in Pole Position!

Fonte:
CulturaCattolica.it
«Non facciamoci rubare la speranza!»
(Papa Francesco, Lumen Fidei)

Teniamo fissi gli occhi lì, non lasciamoci distrarre. Non dalle mazzette al Mose e all’Expo, non dalle beghe nei (e dei) partiti, non dall’Imu, la Tares, la Tasi, le notizie di nera che più nera non si può perché a Brembate Sopra e a Motta Visconti la realtà ha di gran lunga superato la fantasia.
Due germogli ho scorto, in questo deserto di umanità e di bene. E io guardo lì perché è alla vita che voglio guardare, ed è nei germogli che è custodita la speranza.

Michael Schumacher si è svegliato, è uscito dal coma. Poco che ce la raccontino, ora: non ci credeva nessuno. Quasi nessuno. Di certo non ci credeva Gary Hartstein, medico della F.1 dal 2005 al 2012, che solo un paio di settimane fa aveva ribadito il suo pessimismo: «non avremo più buone notizie sullo stato di salute del tedesco. Nessuna persona in stato vegetativo per un anno può riprendere conoscenza».
Già. Quel 29 dicembre si è portato via il campione. Comunque sia, Schumi non andrà più in pista, non sarà più in Pole Position, non vincerà più Gran Premi. Che farsene di uno così? Morto. Se non il corpo, se non la mente, l’icona, l’uomo da guinness, i suoi trionfi da copertina.
E invece, all’ospedale di Grenoble, in quella stanza al quinto piano dimenticata dai giornalisti perché uno che è in coma non fa (più) notizia, tutti i giorni è continuata a salire la moglie Corinna, in una fedeltà che il mondo non sa o non vuole raccontare ed è invece fedeltà che salva. Lei sì ci credeva, e non ha mollato. Lì tutti i giorni per sei ore, fino alle 17.30. Povera illusa, dicevano gli esperti. Non diciamoglielo, non diamole anche questo dolore, ma non c’è più niente da fare. Non c’è speranza, Schumi non tornerà.
E invece è tornato, e non c’è vittoria più grande.
Ora muove gli occhi, reagisce a quel che gli vien detto, riesce a comunicare in modo non verbale. E’ tornato (anche) grazie all’amore incondizionato e alla vicinanza di sua moglie, che non ha smesso un giorno di credere che in quel corpo immobile che dimagriva a vista d’occhio e dipendeva dalle macchine, ci fosse vita degna di essere vissuta anche così. Degna di essere guardata con attenzione e dedizione. Degna d’avere accanto qualcuno che ti dice credo in te, ti voglio bene anche così, anzi di più. Perché non è quando sei forte, quando in pista vai a duecento all’ora che hai bisogno di me, ma ora. Eccomi, ci sono.
Guardo questa donna schiva, che per cinque mesi e mezzo è salita e scesa da quel quinto piano senza dar retta ai pessimisti, senza intrattenersi con i giornalisti, e ammiro il suo amore e la sua tenacia. Non c’è modo più umano di vivere la vita anche quando fa male.

A centinaia di chilometri da lì, un’altra scena. Un uomo, un padre, che parla con il prete della sua parrocchia. Sottovoce, come per pudore. Ma sono parole potentissime.
E’ Fulvio Gambirasio, il papà di Yara, che chiede a don Corinno Scotti di pregare per tutti. «Anche per la famiglia della persona fermata, anche per lui, c’è bisogno di preghiera». Parole dell’altro mondo che irrompono in questo e potrebbero cambiarlo, se avessero eco diversa, se i siti e i giornali le rilanciassero non come gossip, come frasi carpite, ma per la strada che indicano. Perché se un padre ferito nel cuore del cuore riesce a parlare così, è segno che il male non ha l’ultima parola. Neanche in questo giugno che pare uno schifo.

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