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La nascita del Centro di Aiuto alla Vita Mangiagalli

Fonte:
CulturaCattolica.it
Intervista a Paola Bonzi

Paola, mi vuoi raccontare in che contesto è nato il Centro di Aiuto alla Vita Mangiagalli?

Secondo me esiste più di un contesto, e il primo di cui vorrei dire, stiamo parlando della fine degli anni 70 e di tutti gli anni 80 (la legge 194 è del 22 Maggio 1978), è il contesto culturale.
Infatti, fino a quel tempo, c’era un desiderio di riscatto da parte della donna sulla cultura maschile, per non dire maschilista.
La frase «l’utero è mio e me lo gestisco io» era uno degli slogan urlato in quel periodo per le strade, teatro di manifestazioni e cortei di donne che attraverso gli striscioni e le grida volevano affermare il diritto della donna all’autodeterminazione. Per lungo tempo, il destino della donna era stato lasciato, almeno così si credeva, nelle mani degli uomini, predominanti nella vita sociale, politica e anche famigliare.
La donna come angelo del focolare uno stereotipo universale e, forse altrettanto, la volontà della donna di affermarsi non solo nel ruolo domestico ma anche in quello fino ad allora lasciato soprattutto al mondo dei maschi.
Abortire aveva il sapore della rivincita.

Esisteva poi il contesto politico: le donne da sempre hanno clandestinamente abortito e nessuna legge regolamentava questa materia fluida e impalpabile.
Una eccessiva femminilizzazione e privatezza copriva, nascondendolo, questo fenomeno che non trovava considerazione nella legislazione.
Le donne, a questo punto, volevano una legge dello Stato che si occupasse della materia.
Non possiamo dimenticare il fenomeno della diossina della Icmesa di Seveso. La nube tossica sembrava aver terrorizzato tutti, in particolare le donne gravide. Era il 1976 e, nel cortile interno della Mangiagalli, stazionavano 33 donne che chiedevano a gran voce di poter abortire.
La corte costituzionale si espresse in modo favorevole e, così, 33 piccoli bimbi, vicini al cuore della mamma, vennero abortiti , risultando peraltro sanissimi a tutti gli esami compiuti sul loro corpicini.
Questo fatto diede inizio al percorso legislativo, esitato appunto con la legge 194, intitolata “Norme per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria della gravidanza”.
Ci fu poi una notevole divisione all’interno del popolo italiano, per cui una parte del paese si sentì rappresentata dagli esponenti del partito radicale che chiesero un referendum (1980) per allargare le maglie della legge in questione, sollecitando così un altro schieramento (Movimento per la vita italiano) che pure raccolse le firme sufficienti per chiedere un referendum di tipo abrogativo che restringeva la possibilità dell’interruzione di gravidanza ai casi più gravi.
Personalmente mi unii a questo secondo gruppo e, con pochi amici, vivemmo una estate intensa, per prepararci ad un settembre di fuoco.
Mi impegnai a contattare notai sensibili al problema e funzionari dell’ufficio anagrafe comunale che, ai banchetti sparsi per la città, dovevano convalidare le firme di chi voleva affermare il valore della vita nascente.
Ricordo quel periodo come una parentesi molto particolare della mia vita; mi trovai infatti a tenere comizi, con la polizia schierata per mantenere l’ordine pubblico, a fronteggiare gruppi di femministe che mi seguivano quando organizzavamo qualche cosa di pubblico e a dover riferire dei miei spostamenti, agli organismi preposti, quando andavo nelle palestre o aule magne della scuole per spiegare ai giovani che la vita è Vita fin dal concepimento.
La notte del 30 settembre raccogliemmo tutte le schede firmate in tanti scatoloni che avremmo consegnato per ottenere la possibilità di fare il referendum.
Da quel momento, fino al maggio 1981, tenni tanti incontri per raccontare alla gente ciò per cui stavamo conducendo questa “battaglia”.
Nel novembre 1980, dopo tante parole dette e scritte, avevo però deciso che si dovesse passare ai fatti; nacque così un primo centro di Aiuto alla Vita, a Milano, promosso dallo stesso movimento.
Mi ritrovai, allora, a condurre una équipe di cinque assistenti sociali che, a turno, incontravano donne in difficoltà per una gravidanza, anche avanzata, o per la maternità avvenuta in condizioni di grande bisogno economico.
Arrivò il momento del referendum, che puntualmente perdemmo; la frase che ricorreva nei nostri gruppi era: “dobbiamo ripartire da 32”, e trentadue era le percentuale dei Sì.
Certamente insufficiente per mettere mano alla legge 194.
Un ricordo particolare resta nella mia mente: il 2 giugno del 1981 mi ritrovai buttata su un palco, quello dell’allora Palalido di Milano, davanti a 7000 persone, molto spaventata dal dover fare questa arringa, ma fermamente convinta che dovessimo prepararci e unire le forze favorevoli alla vita nascente per diventare riferimento per quelle donne o coppie in difficoltà perché in attesa di un figlio non programmato e/o indesiderato.
Volevo a tutti i costi che il Centro di Aiuto alla Vita, fondato pochi mesi prima, occupasse uno spazio sempre più grande nella società milanese, perché più donne potessero accettare e accogliere il proprio bambino.
Si misero in campo attività con un numeroso gruppo di giovani che organizzavano eventi per raccogliere fondi e che si mettevano al fianco delle mamme incontrate presso il CAV perché potessero vivere più serenamente le loro maternità.

Tutto ciò non mi bastava; fino ad allora avevo fatto l’insegnante ma a quel punto decisi di frequentare una scuola per ‘consulenti familiari’ per poter incontrare direttamente le persone che arrivavano da noi, al fine di instaurare con loro una relazione di aiuto significativa.
Forse fu questo che mi fece rendere conto che il nostro lavoro al CAV non andava ad incidere, se non in qualche raro caso, sulla scelta se proseguire o meno la gravidanza. Il 1983 fu l’anno in cui scoprii il movimento ‘Solidarnosc’ che era fiorito in Polonia: seppi così che, davanti agli ospedali dove venivano praticati gli aborti, gruppetti di donne avvicinavano con delicatezza le altre donne che si recavano per interrompere la loro gravidanza, offrendo vicinanza e ciò che poteva essere utile per il bambino, se fosse nato.
Fu una vera folgorazione! Questo era quello che io volevo fare: essere presente, per ascoltare, nel luogo dove le donne si recavano per abortire.
La clinica Mangiagalli era, purtroppo a quel tempo, l’emblema dell’abortismo e fu così che chiesi all’amministrazione dell’ospedale che al suo interno sorgesse un Centro di Aiuto alla Vita.

Quali sono le esigenze, i bisogni, le domande delle mamme che incontri?

Alla risposta, stranamente affermativa, di poter essere presenti all’interno della clinica, fui assalita dal terrore che nessuna donna si sarebbe mai presentata per essere ascoltata da noi, e per fortuna fui da subito smentita.
Tante donne incominciarono a passarsi il messaggio che alla Mangiagalli qualcuno cercava di aiutare, in modo concreto, le madri e le coppie in difficoltà.
Mi ero prefigurata che l’accoglienza e l’ascolto fossero condizioni sufficienti per far sentire le persone in grado di mettere mano alle proprie risorse interne, dicendo così Sì alla vita che cresceva dentro di loro.
Naturalmente mi sbagliavo; nel colloquio scoprivo voragini di bisogni, anche materiali, che impedivano l’accettazione di una nuova vita.
Emergevano infatti bisogni di tutti i tipi: la famiglia di origine che cacciava di casa, mancanza di alloggio per la coppia, presenza di altri figli di cui occuparsi (era quasi sempre il terzo che rischiava di non nascere), povertà e disoccupazione.
A quel tempo, erano soprattutto le donne italiane quelle incontrate da noi, e ascoltandole empaticamente mi accorgevo che al di là delle necessità materiali erano presenti “lati oscuri” della loro storia e in particolare grandi fatiche di relazione con la propria madre.
Tante sono le storie che si sono avvicendate in questi 28 anni, ma per mettere in luce questo aspetto di ordine affettivo e psicologico, vorrei raccontarne una che le rappresenta tutte.

Eravamo d’inverno, quasi alla fine di una intensa giornata di lavoro; si spalanca la porta della mia stanza per fare entrare in un modo molto “prepotente” una signora imponente, avvolta in un mantello di visone.
Mi dice che lei è gravida ma che, assolutamente, non vuole e non può portare avanti la gravidanza; racconta di tutte le sue proprietà immobiliari, del marito un po’ insignificante, del figlio già nato di 4 anni che le impedisce di avere del tempo per sé, nonostante le varie persone di servizio, ma soprattutto della pessima relazione con la propria madre, alla quale mancava solo la scopa per essere definitivamente una strega!
Le narrazioni su questo aspetto sono numerose e variegate tanto che lei si descrive sola e abbandonata dal mondo intero.
A questo punto del colloquio mi alzo dalla mia sedia per sedermi sul divanetto che lei stava occupando quasi per intero e, lì, me la ritrovo praticamente in braccio, come una bimba desiderosa di amore e di comprensione.
Come sempre, in questi casi, io ascolto e ascolto cercando di rendere più tollerabili queste carenze arcaiche.
Dopo un ampio racconto, ci lasciamo da questo primo incontro con l’intento di rivederci presto.
Per la verità non mi aspettavo di rivederla ma … dopo pochi giorni, torna con un aspetto decisamente più pacato e, ringraziandomi dell’accoglienza ricevuta, mi comunica, quasi gioiosamente, che si era ritrovata molto spesso a rivivere quella sensazione e di aver deciso di accogliere a sua volta il suo bambino.
Mi sono chiesta che cosa fosse scattato, dentro di lei, per arrivare a mettere a fuoco la sua insistenza nel non sentirsi capace di considerarsi madre perché una madre non la aveva avuta.

Quanta importanza dài al colloquio?

Pensando al nostro lavoro, sempre di più mi risulta evidente l’importanza del colloquio.
Certo non si tratta delle quattro chicchere salottiere ma di un colloquio di counseling umanistico-esistenziale che porti la nostra utente a raccontarsi.
Si parte dalla situazione attuale per poter prendere consapevolezza dei propri vissuti e della propria storia in genere.
Il focus è caratterizzato dalla narrazione delle relazioni famigliari che strutturano la personalità di ciascun individuo.
Il colloquio si svolge all’interno di un setting ben individuato, organizzato per favorire modalità di comunicazione e di progettualità.
Inizialmente l’operatore ascolta in modo attivo, raccogliendo le emozioni, le ansie, le paure, cercando di essere quel contenitore capace di restituire serenità e fiducia nelle proprie risorse.
Quando parlo di questa modalità la mente mi torna al “crogiuolo” di cui si parla nel Deuteronomio; crogiuolo dove vengono gettate le pietre che contengono oro, celato però dalle impurità e dalle incrostazioni che l’operatore saprà trattenere per far rilucere la materia preziosa.

Tu personalmente hai incontrato, in questi anni di assiduo lavoro con le madri, donne che hanno abortito?

Le persone che incontro sono sempre donne gravide, ed in particolare all’inizio della gravidanza.
Molte volte parlando di sé stesse e della loro storia si trovano a raccontare anche di precedenti gravidanze interrotte volontariamente.
Spesso il bambino che aspettano viene desiderato quasi con l’intento di colmare il vuoto procurato dall’aborto, forse soprattutto per sostituire il bambino che non hanno fatto nascere.
E’ sicuramente un racconto molto sofferto, quasi sempre soffocato dal pianto, circondato da tanto dolore e da grandi rimpianti.
“Non lo vorrei fare più”, “è stato bruttissimo, però se nessuno mi aiuta …”.
Non molto tempo fa, ho incontrato una giovane donna, molto ambivalente sulla prosecuzione della sua gravidanza; raccontando di aver abortito precedentemente, dice: ”Ho fatto un sogno, ero in un cimitero, non sapevo perché, so che mi aggiravo tra le tombe come per cercare qualcuno che non trovavo.
Mi sentivo un po’ spaventata e confusa ma non mi decidevo a venire via; ad un tratto mi sono sentita chiamare ed era la voce di un bambino”.

In questa nostra società l’evento abortivo viene spesso raccontato, da chi lo ha subìto, come qualche cosa di banale e che toglie dagli innumerevoli problemi; sembra quasi un accanimento perché, se lo si fa in tanti, la responsabilità personale è meno grave.
La donna però sa, nella segretezza del suo cuore, che quel bimbo abortito è suo figlio. E lo resterà per sempre.

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