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"Blowing in the wind": il ’68 tra desiderio, ideologia e violenza

Autore:
Segagni, Enrico
Fonte:
Centro Culturale Charles Péguy
Una serata del Centro culturale "Charles Péguy" a Casatenovo (Alta Brianza)

La serata è stata introdotta da due brevi filmati degli anni ’60, nel primo dei quali un giovane Bob Dylan cantava con la chioma al vento, e nel secondo era accompagnato dall’esecuzione corale della celeberrima “Blowing in the wind”.
Franco Silanos, preside del liceo scientifico “Pascal” di B. Arsizio, ha aperto la serie degli interventi parlando della sua esperienza di sessantottino, compagno di università di Capanna, e confessando la difficoltà di poter riassumere in poche parole un avvenimento di così grande ampiezza. Dall’America “la giovane generazione chiedeva uno spazio per essere protagonista: erano giovani che non avevano partecipato alla ricostruzione del dopoguerra e che, pur sentendosi figli di una grande nazione, rimproveravano agli adulti di non aver proseguito nella strada che avevano imboccato”. In Europa il Maggio francese fu “un fenomeno globale che investì tutta la società, mentre in Italia fu più strettamente legato all’ambito giovanile”. Si trattava di una generazione giovanile prettamente studentesca, e soprattutto sentiva di avere radici borghesi: “Non era un’unica classe sociale che si poneva come fattore di cambiamento, anche se questo contrastava con i testi marxisti. Perciò ne venne fuori un ibrido tra Marx e Rousseau: lo studente era un ‘buon selvaggio’ ‘genuino’ rispetto ai condizionamenti della società”. Ecco allora lo studente rivoluzionario che poteva trascinare nella lotta anche l’operaio, e già nel gennaio ’68 pullulavano i gruppi della sinistra come Avanguardia operaia, Potere Operaio, ecc. La realtà originariamente convergente di “democrazia diretta” stava già mutando.
Il prof. Silanos ha poi ripreso la frase del volantino d’invito: “Il desiderio comune era quello di essere una soggettività reale”, ma “un desiderio che non trova risposta non regge: o si ingessa nell’ideologia o finisce nel niente. Così fu ideologizzato l’impeto del desiderio”. “La violenza non era nel desiderio, ma in un certo senso nell’ideologia che non ammette mai di confrontarsi con la totalità dell’uomo”. In più si aggiunse anche l’agosto praghese, ma “nessuno dei miei coetanei andò sotto le ambasciate a protestare. Si sa: era agosto e le vacanze sono sacre…”. Silanos ha concluso dicendo che il ’68 per la sua esperienza è comunque stato un anno di grazia, perché gli ha permesso di imparare, nella contraddizione, ciò che aveva incontrato in Gioventù Studentesca, “invece molti amici non hanno fatto la storia, sono stati strumentalizzati, come il sale scipito che viene usato per lastricare le strade altrui”.

Luigi Amicone, direttore di “Tempi”, si richiama a “La lunga marcia della maturità”, un intervento di don L. Giussani del 1972 (pubblicato su “Tracce” nr. 3/2008) che giudica gli avvenimenti legati al ’68. “I cristiani – afferma Amicone - si fidavano più di un sogno, di un’emozione forte che di ciò che avevano incontrato. L’unico movimento ad uscire dal ’68 è stato CL”. A partire dal ’68, Amicone suggerisce una valutazione generale: “All’inizio di moti come questo ci sono rivendicazioni circoscritte, concrete, che poi diventano fenomeno globale. Possiamo individuare le ragioni per cui si arriva a una crisi, ma poi entrano in gioco la libertà dell’uomo e di Colui che fa il mondo”. Nel ’68 l’impeto positivo iniziale si documenta per un attimo ma poi finisce subito, e la violenza diventa “motore della storia: se non sei con me, sei mio nemico (non più solo avversario), e in questo modo l’ideologia seppellisce quel desiderio iniziale”. Confrontando le diverse esperienze, il direttore di “Tempi” nota come a un certo punto “il ’68 in Francia si è fermato perché i suoi leader erano più leali dei nostri, e studiando l’esperienza dell’Europa orientale hanno capito che c’era una truffa, che quello che stavano dando alle masse giovanili gli era stato passato da altri”. In Italia invece fu la presenza del Partito Comunista più grande dell’Europa occidentale che permise lo sviluppo degli avvenimenti: “Quella mentalità era difesa dal PCI, che almeno tatticamente sosteneva gli studenti, anche se esistevano dialettica e contrasti. Il PCI rimaneva il punto di riferimento ideale, al massimo si rimproverava ai leader comunisti di non aver fatto quella rivoluzione che i loro padri non avevano terminato nel dopoguerra”.
Perciò il ’68 venne istituzionalizzato da una parte politica. Non è dunque la pretesa di cambiare il mondo che salva da tutto questo, ma occorre partire da se stessi: “Ci si mette insieme - conclude Amicone citando don Giussani - per cercare di sottrarre gli amici e se possibile tutto il mondo dal nulla”.

Fabio Cavallari, giornalista e scrittore, è intervenuto – quale relatore più giovane tra i presenti - con un approccio personale sull’eredità del ’68 e i suoi miti. “Ha fatto più male - si è chiesto - a chi l’ha vissuto o a chi l’ha subito?”, visto che si è trattato del “mito non di una persona, ma di un clima: a noi è arrivata un’informazione blindata”, capace di attrarre e strumentalizzare i nuovi giovani animati dagli stessi impeti della precedente generazione. “Ti arriva il mito di un clima: la violenza, l’abbattimento dell’autorità e la droga. Anche la violenza può affascinare: la violenza contro il ‘nemico’, non l’avversario politico. E la droga (arriva a noi come iniziale elemento di liberazione): anche questo è un elemento di fascino per uno che è da solo”. Il fatto negativo “è stato perpetuare gli slogan del ’68 negli anni successivi”, perché i ragazzi di allora, anche sbagliando, potevano confrontarsi con ciò che era a loro contemporaneo; “Ma noi, che siamo venuti dopo, con chi confrontiamo tutto questo? E se manca la corrispondenza tra quelle parole e la tua vita, è facile abbandonarsi alla modernità e al relativismo”. La parola chiave per combattere l’eredità mitizzata e ogni tentativo utopistico è “esperienza reale”: “L’elemento che può salvare dal mito è l’esperienza, l’incontro con una persona reale che ti racconta la sua esperienza, non solo una storia”.

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