Cristo sì, Chiesa no?
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«Il vocabolo “ekklesìa” fa la sua apparizione solo sotto la penna di Paolo, che è il primo autore di uno scritto cristiano. Ciò avviene nell’incipit della prima Lettera ai Tessalonicesi, dove Paolo si rivolge testualmente “alla Chiesa dei Tessalonicesi” (poi anche “la Chiesa dei Laodicesi” in Col 4,16). In altre lettere egli parla della Chiesa di Dio che è in Corinto (1 Cor 1,2; 2 Cor 1,1), che è in Galazia ((Gal 1,2 ecc.) – Chiese particolari, dunque – ma dice anche di avere perseguitato “la Chiesa di Dio”: non una determinata comunità locale, ma “la Chiesa di Dio”. Così vediamo che questa parola “Chiesa” ha un significato pluridimensionale: indica da una parte le assemblee di Dio in determinati luoghi (una città, un paese, una casa), ma significa anche tutta la Chiesa nel suo insieme. E così vediamo che “la Chiesa di Dio” non è solo una somma di diverse Chiese locali, ma che le diverse Chiese locali sono a loro volta realizzazione dell’unica Chiesa di Dio. Tutte insieme sono “la Chiesa di Dio”, che precede le singole Chiese locali e si esprime, si realizza in esse» [Benedetto XVI, Udienza Generale, 15 ottobre 2008].
Nel post – Concilio movimentato, e ancora oggi, la domanda sulla Chiesa verte in larga misura intorno all’interrogativo di come renderla diversa e migliore. Ma già chi vuole riparare una televisione, e più che mai chi si propone di guarire un organismo che vive in continuità dinamica da due mila anni, pensato e voluto dal Figlio di Dio incarnato come comunità di credenti in Lui e che si sentono assemblea, convocazione cattolica cioè di tutti i popoli da parte di Dio e davanti a Lui, deve anzitutto esaminare come sia articolato da sempre questo organismo. Chi, inoltre, desidera che l’azione non sia cieca e quindi distruttiva, deve prima interrogarsi sull’essere cioè sulla verità. E oggi la volontà di operare nella Chiesa esige anzitutto la pazienza di domandare che cos’è la Chiesa, come Gesù Cristo l’ha pensata e voluta, da dove viene e a quale fine è ordinata, qual è la sua ragione d’essere e di operare; anche oggi l’etica ecclesiale può essere rettamente orientata solo se lascia illuminare e guidare dal logos della fede e in quest’anno paolino dalla sua testimonianza apostolica. Ma oggi domina la convinzione che la direttrice di fondo della storia non sia l’essere ma il dover essere cioè il progresso, e che perciò il bene venga sempre e solo dal futuro: è un pregiudizio diffuso, coltivato e per la fede drammatico perché dissolve il criterio veritativo della continuità o Tradizione. Ma per smascherare questo pregiudizio è necessario un chiaro criterio di giudizio cioè la verità di ogni uomo, il bene autentico suo e della società.
“La Chiesa di Dio” nella testimonianza originaria, apostolica a tutte le genti in Paolo
E’ importante osservare che quasi sempre la parola “Chiesa appare con l’aggiunta della qualificazione “di Dio”: non una associazione umana, nata da idee o interessi comuni, ma da una convocazione di Dio. Egli l’ha convocata e perciò è una in tutte le sue realizzazioni. L’unità di Dio, dell’unico Essere divino che sussiste nel Dio vivente, Padre, Figlio, Spirito Santo, unico Dio crea l’unità della Chiesa in tutti i luoghi dove essa accade e si trova. Più tardi, nella Lettera agli Efesini, Paolo elaborerà abbondantemente il concetto di unità della Chiesa, in continuità col concetto di Popolo di Dio, Israele, considerato dai profeti come “sposa di Dio”, chiamata a vivere una relazione sponsale con Lui. Paolo presenta l’unica Chiesa di Dio come “sposa di Cristo” nell’amore, un solo corpo e un solo spirito con Cristo stesso. E’ noto che il giovane Paolo era stato accanito avversario del nuovo movimento costituito dalla Chiesa di Cristo. Ne era stato avversario per motivi religiosi, perché aveva visto minacciata in questo nuovo movimento la fedeltà alla tradizione del Popolo di Dio, animato dalla fede nel Dio unico. Tale fedeltà si esprimeva soprattutto nella circoncisione, nell’osservanza delle regole della purezza cultuale, dell’astensione da certi cibi, dal rispetto del sabato. Questa fedeltà gli Israeliti l’avevano pagata col sangue dei martiri, nel periodo dei Maccabei, quando il regime ellenista voleva obbligare tutti i popoli a conformarsi all’unica cultura ellenistica. Molti israeliti avevano difeso col sangue la vocazione propria di Israele. I martiri avevano pagato con la vita l’identità del loro popolo, che si esprimeva mediante questi elementi. Dopo e alla luce dell’incontro con il Cristo risorto e il suo esplicito mandato a tutte le genti, Paolo capì che i cristiani non erano traditori; al contrario tutte le genti, divenendo il Dio di tutti i popoli. In questo modo si realizzava la fedeltà all’unico Dio: non erano più necessari segni distintivi costituiti da norme e osservanze particolari, perché tutti erano chiamati, nella loro varietà, a far parte dell’unico popolo di Dio della “Chiesa di Dio” in Cristo.
Per la Chiesa il valore fondamentale e fondante di Cristo e della “parola” che lo annuncia.
Paolo era consapevole che non si diventa cristiani per coercizione, per l’orizzonte culturale od etico in cui si vive, ma che nella configurazione interna della nuova comunità la componente istituzionale era inevitabilmente legata all’avvenimento della “parola” viva, all’annuncio del Cristo vivo nel quale Dio si apre a tutti i popoli e li unisce in un unico popolo di Dio, in unica Chiesa veramente cattolica. E’ sintomatico che Luca negli Atti degli Apostoli impieghi più volte, anche a proposito di Paolo, il sintagma “annunciare la parola” (At 4,29.31; 8,25; 11,19; 13,46; 14,25; 16, 6.32), con l’evidente intenzione di evidenziare al massimo la portata decisiva della “parola” dell’annuncio. In concreto, tale parola è costituita dalla croce e dalla risurrezione di Cristo, in cui hanno trovato realizzazione le Scritture. Il Mistero pasquale, che ha provocato la svolta, il nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva della sua vita sulla strada di Damasco, sta ovviamente al centro della predicazione dell’Apostolo (1 Cor 2,2; 15,14). Questo Mistero cioè questa realtà divina nella via umana, annuncia nella parola, si realizza in continuità nei sacramenti del Battesimo e dell’Eucaristia e diventa poi realtà, vissuto fraterno di comunione ecclesiale autorevolmente guidata nella carità cristiana. L’opera evangelizzatrice di Paolo non è finalizzata ad altro che ad impiantare la comunità dei credenti in Cristo. Questa idea è insita nella etimologia stessa del vocabolo ekklesìa, che Paolo, il primo teologo della Chiesa, e con lui l’intero cristianesimo, ha preferito all’altro termine di “sinagoga”: non solo perché originariamente il primo e più ‘laico’ (derivando dalla prassi greca dell’assemblea politica e non propriamente religiosa), m anche perché esso implica direttamente l’idea più teologica di una chiamata ab extra, non quindi di un semplice riunirsi insieme; i credenti sono chiamati da Dio, il quale li raccoglie in una comunità, la sua Chiesa.
L’originale concetto, esclusivamente paolino, della Chiesa come “Corpo di Cristo”
Occorre avere presente le due dimensioni di questo concetto.
- Una è di carattere sociologico, secondo cui il corpo è costituito dai suoi componenti e non esisterebbe senza di essi. Questa interpretazione appare nella Lettera ai Romani e nella Prima Lettera ai Corinti, dove Paolo assume un’immagine che esisteva già nella sociologia romana: egli dice che un popolo è come un corpo con diverse membra, ognuna delle quali ha la sua funzione, ma tutte, anche le più piccole e apparentemente insignificanti, sono necessarie perché il corpo possa vivere e realizzare le proprie funzioni. Opportunamente l’Apostolo osserva che nella Chiesa ci sono tante vocazioni: profeti, apostoli, maestri, persone semplici, tutti chiamati a vivere ogni giorno la carità, tutti necessari per costruire l’unità vivente di questo organismo spirituale.
- L’altra interpretazione fa riferimento al Corpo stesso di Cristo. Paolo sostiene che la Chiesa non è solo un organismo, ma diventa realmente corpo di Cristo nel sacramento dell’Eucaristia, dove tutti riceviamo il suo Corpo e diventiamo realmente suo Corpo. Si realizza così il mistero sponsale (il divino nell’umano e l’umano nel divino) che tutti diventano un solo corpo e un solo spirito in Cristo. Esiste una profonda correlazione fra il divino e l’umano nel Verbo incarnato e il divino e l’umano della Chiesa. Il Vaticano II afferma: “come la natura umana serve al verbo divino da vivo organo di salvezza, a Lui indissolubilmente unito (Gesù è la via umana alla Verità e alla Vita del Dio vivente, Padre, Figlio, Spirito Santo), così in modo non dissimile l’organismo sociale della Chiesa serve allo Spirito di Cristo che la vivifica, per la crescita del Corpo” (LG 8,1), pure via umana alla Verità e alla Vita sempre del Dio vivente, Padre, Figlio, Spirito Santo, unico Dio. Certo la Chiesa non deve essere né identificata né separata dal Signore risorto, suo sposo (ecco i due errori), ma unita a Lui che, in essa è presente, ed attraverso essa porta ogni uomo alla salvezza: né identica, né separata ma unita nella distinzione. Proprio come l,o sono due sposi (Ef 5,25-31): complementari nella diversità. Ma come il Risorto si fa, è presente “qui e ora” nella Chiesa e quindi come attraverso di essa incontra ogni uomo che a Lui si converte con l’annuncio? Quando parliamo di mistero della Chiesa cioè del divino nell’umano, popolo sposa di Cristo parliamo di ogni Chiesa particolare unita nella persona del suo Vescovo, che è membro del Collegio episcopale presieduto dalla autorità del Vescovo di Roma; parliamo della Chiesa che si incontra nell’ultima localizzazione delle parrocchie o in movimenti ecclesiali d’ambiente riconosciuti: della realtà di cui noi facciamo quotidianamente parte. E in che modo il Risorto si fa, è presente in questa realtà che è la sua Chiesa? Attraverso la presenza eucaristica “la meraviglia di tutte le meraviglie”, il “compendio del cattolicesimo. Nel sacramento dell’Eucaristia il salvatore, incarnatosi nel grembo di Maria venti secoli fa, continua ad offrirsi come sorgente di vita divina. Incontro eucaristico con Cristo significa ingresso di Lui in noi, tale per cui siamo assimilati a Lui, viviamo in Lui e di Lui come la vite e i tralci, come la comunione coniugale, come la mutua in abitazione. E perché un incontro del genere possa accadere, Cristo infonde in ogni uomo ciò che di più intimo, di più proprio c’è in Lui, il suo stesso Spirito. E’ Lui, lo Spirito che come transustanzializza pane e vino in Lui così rende unico corpo con Lui. Così la realtà va molto oltre l’immagine sociologica, esprimendo la sua vera essenza profonda, cioè l’unità di tutti i battezzati in Cristo, considerati dall’Apostolo “uno” in Cristo, conformati al sacramento del suo Corpo.
Dicendo questo, Paolo mostra di saper bene e fa capire a tutti noi che la Chiesa non è sua e non è nostra: la Chiesa è corpo di Cristo, è “Chiesa di Dio”, “campo di Dio, edificazione di Dio… tempio di Dio” (1 Cor 3,9.16). Quest’ultima designazione è particolarmente interessante, perché attribuisce a un tessuto di relazioni interpersonali un termine che comunemente serviva per indicare un luogo fisico, considerato sacro. Il rapporto tra Chiesa e tempio viene perciò ad assumere due dimensioni complementari: da una parte viene applicata alla comunità ecclesiale la caratteristica di separatezza e purità che spettava all’edificio sacro, ma, dall’altra, viene pure superato il concetto di uno spazio materiale, per trasferire tale valenza alla realtà di una viva comunità di fede, un vivo vissuto fraterno di comunione ecclesiale autorevolmente guidato. Se prima i templi erano considerati luoghi della presenza di Dio, adesso si sa e si vede che Dio non abita in edifici fatti di pietre, ma il luogo, la via umana della presenza di Dio nel mondo è la comunità viva dei credenti, è il vissuto fraterno di comunione e ecclesiale.
Un discorso a parte meriterebbe la qualifica di “popolo di Dio”, che in Paolo è applicata sostanzialmente al popolo dell’Antico Testamento e poi ai pagani che erano “il non popolo” e sono diventati anch’essi popolo di Dio grazie al loro inserimento in Cristo mediante la parola e il sacramento.
E finalmente un’ultima sfumatura. Nella Lettera a Timoteo Paolo qualifica la Chiesa come “casa di Dio” (1 Tm 3,15); e questa è una definizione davvero originale, poiché si riferisce alla Chiesa come struttura comunitaria in cui si vivono calde relazioni interpersonali di amicizia e di fraternità di carattere familiare. L’Apostolo ci aiuta a comprendere sempre più a fondo il mistero cioè il divino nell’umano della Chiesa nelle sue diverse dimensioni di assemblea di Dio nel mondo. Questa è la grandezza della Chiesa e la grandezza della nostra chiamata: siamo tempio di Dio nel mondo, luogo dove Dio abita realmente, e siamo, al tempo stesso, comunità, famiglia di Dio, il Quale è carità. Come famiglia e casa di Dio dobbiamo realizzare nel mondo la carità di Dio e così essere, con la forza che viene dalla fede, luogo e segno della sua presenza.