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E’ morta Carlotta, la secondogenita di Giovannino Guareschi

Fonte:
CulturaCattolica.it
«Signora Germania, tu mi hai messo fra i reticolati, e fai la guardia perché io non esca. E’ inutile signora Germania: io non esco, ma entra chi vuole. Entrano i miei affetti, entrano i miei ricordi. E questo è niente ancora, signora Germania: perché entra anche il buon Dio e mi insegna tutte le cose proibite dai tuoi regolamenti… L’uomo è fatto così, signora Germania: di fuori è una faccenda molto facile da comandare, ma dentro ce n’è un altro e lo comanda soltanto il Padre Eterno».
(Giovannino Guareschi, Diario clandestino)

Due flash. Due storie di padri, di madri, di figli. Cioè di famiglia. Sono le storie più belle, perché riguardano tutti: magari non siamo (ancora) padri o madri e forse non lo saremo mai. Ma figli sì, figli siamo tutti. E tutti veniamo da una mamma e da un papà. Sentite qui.

Primo flash.
E’ morta Carlotta, la secondogenita di Giovannino Guareschi. Avrebbe compiuto 72 anni tra pochi giorni. Sposata, madre di tre figli, con il fratello Albertino ha dedicato la vita a curare l’archivio di Roncole Verdi e il Centro studi dedicato al padre, l’autore più tradotto nel mondo.
Carlotta nacque mentre il padre si trovava in campo di concentramento e lo conobbe solo a due anni, al termine della guerra.
Mi piace ricordarla così, con le pagine che il padre le ha riservato nel suo libro a mio avviso più bello, “Diario clandestino”, scritto proprio durante gli anni da internato. Pagine partorite nel lager per il lager, lette da Giovannino di baracca in baracca per portare sollievo e donare un sorriso ai compagni di vita e di sventura. A loro dedica anche la conversazione “Baracca 18 – Beniaminovo – 1944”, dove ricorda la notte del 30 dicembre del ’43, quando, mentre stava per addormentarsi, gli apparve «un uomo in camicia», lo stesso che gli era apparso in sogno un paio di mesi prima a Czestochowa. Riporto, virgolettate, le parti salienti, senza commenti.
«Lo sciagurato – non contento di frequentare a soli tre anni e mezzo i più malfamati sogni notturni degli adulti – s’era dato ora alle compagnie frivole... Lo spettacolo era riprovevole: una donnina stava a fianco di mio figlio, e si trattava palesemente di una scostumata, perché era in camicia e aveva un ciuffo di capelli ciondolante sull’occhio sinistro, inoltre portava in cima alla testa una specie di cuffia tutta di traverso. Una scostumata traballante che, per reggersi, doveva aggrapparsi disperatamente al suo compagno di sregolatezze, e che continuava a masticare gomma come l’ultima taxi-girl dell’ultimo tabarino di Filadelfia».
« “Chi è quella donna?”, domandai severo, traendo il capo dalle coperte… Appresi così una piccola storia. La ragazza era arrivata, durante una notte di pioggia, a casa di Albertino (il primogenito di Guareschi n.d.a.) e si trattava di una disgraziata che non si poteva buttare sulla strada… Albertino aggiunse che la poveretta – oltre a tutto – non aveva mai potuto conoscere suo padre perché questi, essendo un uomo cattivo, si trovava in prigione. Albertino l’aveva condotta da me per mostrarle come era il suo. Un papà per bene il suo, che – non essendo cattivo – non si trovava come l’altro in prigione. “Mio babbo è buono”, affermò Albertino, “e allora è intennato miitàe”». (...)
«Guardai la ragazza scuotendo il capo: non doveva avere più di quaranta giorni, l’infelice, e il vedere una donna così giovane in giro per i gelidi sogni delle notti polacche, mi dava un po’ di pena. E poi trovavo sul suo viso dei tratti noti. A chi assomigliava? Eppure, di occhi come quelli là ne avevo visti parecchie volte; e anche quel mento con la fossettina al centro mi era familiare. Dissi ad Albertino che la riconducesse a casa e la mettesse a letto. “Dove dorme?”. “Nel letto grande, al posto del babbo”». (...)
«Mi ricorderò la notte del 30 dicembre del ’43. E mi ricorderò anche la sera del 31: mi arrivò infatti la prima cartolina. E nella prima riga c’erano cinque straordinarie parole: “Tredici novembre nata signorina Carlotta”».
«O signorina Carlotta, nata nella prima riga di una cartolina in franchigia, come un fiorellino rosa in un praticello nevoso; o fiore tardivo sbocciato laggiù nella tiepida estate di San Martino e quassù soltanto nell’ultima gelida giornata dell’anno! Quarantotto giorni doveva farmi aspettare il complicato meccanismo postale, ma tu abbreviasti l’attesa.
Eri tu la visitatrice della notte del 30, e il tuo contegno fu giudicato deplorevole perché masticavi gomma di succhiotto, traballavi come un optière dubbioso, e avevi l’occhio destro rotondo come quelli del tuo miserando padre… Mi ricorderò la notte del 30 dicembre ’43. Nella baracca più alta del campo turchestano, in mezzo alle centomila vecchie parole accatastate sul tavolo dell’ufficio postale, ce n’era una nuova nuova: Carlotta… Il vento che si dava gran da fare sul tetto della baracca 18 mi svegliò, e io rividi Albertino e conobbi la signorina Carlotta. E aspetterò che torni, e passeranno i giorni...».

Amo Giovannino Guareschi, morto a Cervia il 22 luglio del 1968 e, se lo conosco un po’, penso che da Lassù non abbia lasciato passare un giorno senza pensare alla sua Carlotta, «la pasionaria», e senza che il suo cuore ripetesse, proprio come a Beniaminovo, «… e aspetterò che torni, e passeranno i giorni...». Perché tra genitori e figli è così. Siamo presenze gli uni per gli altri anche quando siamo lontani, anche quando non ci possiamo vedere. E siamo legami che nessuno può recidere. Non la «signora Germania», non le mode che oggi vorrebbero farci credere che il papà e la mamma in fondo sono degli optional, o che esistano madri a tempo, contenitori a tempo, e poi chi s’è visto s’è visto: a tirarti su, uno/a vale l’altro/a. Balle.

Secondo flash.
Stamattina, a scuola. Dopo l’intervallo, salgo con la bidella, che sta per prendere servizio. «Prof.» – mi dice con un sorriso – «è lunedì e dovrei essere pimpante e riposata, ma sono più stanca di sabato. Ho tutti i muscoli che mi fanno male. Ieri sono stata in cimitero a pulire la tomba di famiglia...».
C’è un via vai di ragazzi, lungo le scale, e non sento bene; mi pare mi stia parlando della nonna, mancata più di 50 anni fa, invece no. Capisce che non ho capito e ripete. «Mia mamma è morta nel ’57 e la nostra tomba di famiglia è in granito ruvido. Pezzetto dopo pezzetto l’ho fatta tornare nuova. In ginocchio, spazzola, olio di gomito, ci ho messo un sacco di tempo, ma adesso è bellissima».
La guardo. E’ stanca ma contenta e le chiedo di ripetere (sarà la vecchiaia e perdo colpi…) Come, nel ’57? Magari si è confusa...
«Sì, nel ’57. Io avevo quattro anni», mi dice. «Ricordo poco o niente di quei momenti: la confusione, la sirena dell’ambulanza, i parenti… ma è una sensazione dolce, quella che conservo di lei. E’ dentro di me. Più delle cose che possiamo aver fatto insieme, o che ci siamo dette, ricordo la sua presenza, la sua tenerezza, il suo profumo, il timbro della sua voce… e sono cose che porto sempre con me...»
… e io me la vedo, questa ex-bambina-di-quattro-anni che in ginocchio, centimetro dopo centimetro, lucida la tomba della sua mamma, e l’abbellisce con i fiori più belli, quelli che piacevano a lei...
«Nelle foto siamo uguali», mi dice. «Anzi no. Sono io, ora, a sembrare sua madre: lei è morta giovane. Però ci assomigliamo, è da lì che vengo, da lei, e ieri ci siamo dette tante cose...»

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