Impariamo da Ambrogio: Lo scontro delle Basiliche
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Quando in questi giorni sento dire che le manifestazioni di popolo non sono parte della tradizione cattolica, mi viene da sorridere. Sono un sacerdote ambrosiano e non posso non aver cara la figura di S. Ambrogio. Dunque rivediamo insieme una pagina di storia ambrosiana: il 385 e il 386 sono gli anni della famosa “questione delle basiliche”.
L’imperatrice Giustina, la madre di Valentiniano II, era rimasta attaccata alla confessione semi-ariana di Rimini e la corte era piena di generali e di funzionari di origine barbara ed ariani. Per questo aveva chiamato a Milano il vescovo ariano Mercurino Aussenzio (da non confondere con Aussenzio di Milano, morto dieci anni prima). Valentiniano, ancora molto giovane e quindi facilmente manipolabile da sua madre, aveva chiesto ad Ambrogio di cedere agli ariani una basilica. Ambrogio, pur mostrandosi disponibile al dialogo, si rifiutò di cedere agli ariani un luogo di culto cattolico, arrivando a barricarsi con i fedeli ambrosiani nella Basilica Portiana (oggi, S. Vittore in Colle). Sì, avete sentito bene, barricarsi nella basilica! Ed era altissimo il rischio che ci scappasse il morto, perché i legionari romani non erano certo avvezzi alle maniere dolci. Le basiliche furono letteralmente invase dalla popolazione, che vi si accampò per giorni alfine d’impedirne l’ingresso ai soldati, e non valsero né esortazioni, né minacce, né arresti in massa per vincerne la resistenza.
Nella Portiana occupata c’era anche Monica, la madre di Agostino, e in questa occasione Ambrogio, per invitarli a pregare e a resistere il più possibile, fece cantare ai fedeli alcune semplici melodie, di cui egli stesso compose musica e testo, come spiega Agostino nelle Confessioni: si tratta di Aeterne rerum Conditor (O eterno Creatore delle cose), Iam surgit hora tertia (È ormai l’ora terza), Deus Creator omnium (Dio, creatore di tutte le cose), Intende qui regis Israel (Volgiti a noi, tu che guidi Israele). Durante il sequestro della Portiana da parte della corte imperiale, a cui si aggiunse l’assedio militare della Basilica Nova (cioè S. Tecla, di cui oggi rimangono i resti sotto il Duomo). Dopo essere stato informato che la corte imperiale aveva posto sotto sequestro la basilica Portiana, per costringerlo a cederla agli ariani e al loro vescovo Mercurino Aussenzio, Ambrogio pronunciò in chiesa, la domenica delle Palme del 386 il Sermo contra Auxentium (Discorso contro Mercurino Aussenzio), in cui, tra l’altro, afferma: «Non temete! Io non vi abbandonerò, non abbandonerò la Chiesa. Certo, alla violenza io non posso rispondere con la violenza. Potrò lamentarmi, piangere, gemere: perché contro le armi, contro i soldati, contro i barbari, le mie armi sono le lacrime (e, aggiungo io, il sostegno indiscusso della maggioranza dei milanesi ndr). Queste sono le sole armi degne di un vescovo … Il sanguinario Aussenzio pretende la mia basilica. Ma io non posso tradire l’eredità di Cristo, l’eredità dei miei padri, dei miei predecessori nell’episcopato … Il tributo è di Cesare e non gli viene rifiutato; la chiesa è di Dio, e certamente non deve essere assegnata a Cesare, perché il tempio di Dio non può rientrare nei diritti di Cesare. Con questo nessuno ci accusi di mancanza di riverenza all’imperatore. Infatti nessun onore è più grande di questo: che l’imperatore possa dirsi figlio della Chiesa. Perché l’imperatore fa parte lui pure della Chiesa, è nella Chiesa, non sopra la Chiesa».
Sempre nel 386 la corte imperiale aveva emanato una legge che concedeva agli ariani libertà di culto, minacciando addirittura di morte gli eventuali oppositori. Pur di costringere Ambrogio ad acconsentire, la corte l’aveva invitato, prima, ad allontanarsi da Milano per lasciare che altri decidessero per lui; poi gli aveva chiesto di comparire di fronte a una commissione presieduta da Valentiniano II e formata da giudici laici, scelti per metà da Mercurino Aussenzio e per l’altra metà da Ambrogio stesso. Questa commissione avrebbe avuto il compito di decidere se le pretese degli ariani fossero fondate e quindi chi dei due, tra Ambrogio e Mercurino Aussenzio, dovesse essere riconosciuto come legittimo vescovo di Milano. Ambrogio, incoraggiato da altri vescovi, non si presentò, ma scrisse a Valentiniano II la lettera n. 75. In questa lettera, Ambrogio ricorda all’imperatore che già suo padre Valentiniano I aveva stabilito, per legge, che le questioni di fede e quelle ecclesiastiche dovessero essere affrontate solo da ecclesiastici (in particolare, vescovi), mai da laici. Ambrogio fa poi altre osservazioni, notando tra l’altro che, date le disposizioni della legge che minacciava di morte chiunque si fosse opposto alla libertà di culto degli ariani, sarebbe stato molto difficile trovare qualcuno così coraggioso o onesto da dare un giudizio imparziale sulla faccenda.
Nel Discorso contro Mercurino Aussenzio, Ambrogio spiega che la Chiesa è fedele all’imperatore e rispetta le leggi dello Stato; a sua volta, però, l’impero deve rispettare quelle che sono le legittime esigenze della Chiesa. Il potere imperiale non deve pretendere di intervenire nelle questioni ecclesiastiche, che non gli competono. Potrà esserci collaborazione fra i due poteri, a patto che l’imperatore, riconoscendosi come colui che fa parte della Chiesa senza esserne al di sopra, non pretenda di giudicarla, ma ne accetti le indicazioni, anche e soprattutto di ordine spirituale, per governare saggiamente; non solo, cioè, da buon politico, ma anche da buon cristiano. Ciò emerge anche da un passo di una lettera di Ambrogio a Marcellina (n. 76), dove egli riassume la vicenda: «Mi si ordina: “Consegna la basilica”. Io rispondo: “Dio mi proibisce di consegnarla” … Mi si fa rilevare che tutto è permesso all’imperatore, che è il signore di tutte le cose. Rispondo: “Non commettere la grave colpa di credere, o imperatore, che l’autorità imperiale abbia il minimo diritto sulle cose divine. Non esaltarti, ma, se vuoi governare a lungo, sii sottomesso a Dio”. Sta scritto: “A Dio quel che è di Dio, a Cesare quel che è di Cesare”. Le regge appartengono all’imperatore, le chiese al vescovo».
Il momento di massima tensione si ha in concomitanza della Settimana Santa del 386 (dal venerdì 27 marzo, passando per la domenica delle Palme 29 marzo, fino al giovedì santo 2 aprile) quando, appunto, la corte decide di occupare con la forza la basilica Portiana: Ambrogio non si muove dalla basilica vecchia in cui è stato fino ad ora, mentre il popolo accorre in massa alla Portiana per difenderla con la sua presenza. Nei giorni seguenti, i soldati circondano sia la basilica vecchia sia la basilica nuova. Ambrogio non cede mai di un millimetro, né si discosta dalla posizione di fondo, che è quella di ribadire come il potere imperiale debba cedere di fronte alla gestione dei templi, che sono case del Signore. Intanto alcune defezioni si iniziano a vedere anche fra i soldati, alcuni dei quali entrano nella basilica nuova per pregare assieme ai cattolici e al vescovo. Altri soldati però non smettono di circondare le basiliche secondo gli ordini di Valentiniano II: tale situazione di forte tensione dura per tutto il mercoledì santo dell’anno 386. Quel giorno Ambrogio aveva pronunciato queste parole: «Non è lecito consegnarti la basilica, o imperatore, né a te conviene prenderla. Tu che non puoi violare la casa di un cittadino privato, pretendi di portar via una casa di Dio? Mi si risponde che all’imperatore tutto è lecito. Ed io dico: non credere che tu abbia diritti imperiali sulle cose divine». (E lo stesso atteggiamento di fermezza Ambrogio lo avrà anche con l’imperatore Teodosio dopo la carneficina di Tessalonica del 390).
Improvvisamente il giovedì santo, 2 aprile, mentre il vescovo spiega il libro di Giona, viene interrotto dalla folla plaudente per la notizia che l’imperatore ha dato ordine di ritirare i soldati, e di restituire le multe imposte ad alcune classi di cittadini in vista, che sostenevano Ambrogio. La situazione volse definitivamente a favore di Ambrogio per molteplici ragioni, ma certamente la corte imperiale rinunciò alle proprie pretese sulle basiliche milanesi anche perché egli era appoggiato senza condizioni dalla popolazione.
Dunque abbiamo imparato da S. Ambrogio, nostro venerando padre nella fede, che nella vita del cristiano e della Chiesa non sussiste divisione alcuna tra preghiera, testimonianza e azione (azione che, abbiamo visto, ha anche una esplicita dimensione pubblica di popolo).
Mi si dirà: «Ma qui si tratta di chiese!». Ed io rispondo: «La famiglia non è un semplice edificio, è molto più! È, nella sua realtà, la stessa Chiesa nella sua dimensione domestica (cfr. Lumen Gentium, 11)!». Sì, ma erano altri tempi, e non era ancora stato messo ben a fuoco il principio della laicità dello Stato. È vero, ma che l’imperatore non abbia diritti assoluti è un principio che la Chiesa ha sempre affermato è che è tuttora valido! Lo ricordava mirabilmente Papa Benedetto XVI nella sua visita pastorale all’Arcidiocesi di Milano in occasione del VII Incontro Mondiale delle Famiglie (1-3 giugno 2012). Incontrando le Autorità civili nella Sala del Trono dell’Arcivescovado di Milano sabato 2 giugno il Papa ha, tra l’altro detto: «Ambrogio indica chiaramente una verità centrale sulla persona umana, che è solido fondamento della convivenza sociale: nessun potere dell’uomo può considerarsi divino, quindi nessun uomo è padrone di un altro uomo. Egli lo ricorderà coraggiosamente all’imperatore scrivendogli: “Anche tu, o augusto imperatore, sei un uomo” (Epistula 51,11) … La prima qualità di chi governa è la giustizia, virtù pubblica per eccellenza, perché riguarda il bene della comunità intera. Eppure essa non basta. Ambrogio le accompagna un’altra qualità: l’amore per la libertà, che egli considera elemento discriminante tra i governanti buoni e quelli cattivi, poiché, come si legge in un’altra sua lettera, “i buoni amano la libertà, i reprobi amano la servitù” (Epistula 40, 2). La libertà non è un privilegio per alcuni, ma un diritto per tutti, un diritto prezioso che il potere civile deve garantire. Tuttavia, libertà non significa arbitrio del singolo, ma implica piuttosto la responsabilità di ciascuno. Si trova qui uno dei principali elementi della laicità dello Stato: assicurare la libertà affinché tutti possano proporre la loro visione della vita comune, sempre, però, nel rispetto dell’altro e nel contesto delle leggi che mirano al bene di tutti. D’altra parte, nella misura in cui viene superata la concezione di uno Stato confessionale, appare chiaro, in ogni caso, che le sue leggi debbono trovare giustificazione e forza nella legge naturale, che è fondamento di un ordine adeguato alla dignità della persona umana, superando una concezione meramente positivista dalla quale non possono derivare indicazioni che siano, in qualche modo, di carattere etico (cfr. Discorso al Parlamento Tedesco, 22 settembre 2011). Lo Stato è a servizio e a tutela della persona e del suo “ben essere” nei suoi molteplici aspetti, a cominciare dal diritto alla vita, di cui non può mai essere consentita la deliberata soppressione. Ognuno può allora vedere come la legislazione e l’opera delle istituzioni statuali debbano essere in particolare a servizio della famiglia, fondata sul matrimonio e aperta alla vita, e altresì riconoscere il diritto primario dei genitori alla libera educazione e formazione dei figli, secondo il progetto educativo da loro giudicato valido e pertinente. Non si rende giustizia alla famiglia, se lo Stato non sostiene la libertà di educazione per il bene comune dell’intera società».
Qualcuno, in questi giorni, mi ha anche scritto: «Gesù si è sempre sottratto alle manifestazioni, e l’unica a cui ha partecipato è quella che lo ha portato a morte». Rammento però queste parole di Gesù: «Non abbiate dunque paura di loro, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto. Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze. E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo … Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli» (Mt 10,26-28.32-33). E rammento anche che nel Vangelo c’è uno che ha preso sul serio queste parole e, per questo, ci ha rimesso la testa: «Erode aveva mandato ad arrestare Giovanni e lo aveva messo in prigione a causa di Erodìade, moglie di suo fratello Filippo, perché l’aveva sposata. Giovanni infatti diceva a Erode: “Non ti è lecito tenere con te la moglie di tuo fratello”.» (Mc 6,17-18).