Morte e vita. A proposito di suicidio
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«Secondo uno studio del Centro studi e ricerche socio-economiche della Link Campus University di Roma, – rileva Rino Cammilleri nell’articolo apparso il 10-08-2013 su lanuovabussolaquotidiana col titolo Suicidi, non sono un problema di economia – in Italia i suicidi legati alla crisi economica dal 2012 a oggi sono 165, di cui 76 nel solo primo semestre del 2013. Più alto il numero dei suicidi tra gli imprenditori che tra i disoccupati. L’età media pare abbassarsi, tra i 35 e i 44 anni, anche se la percentuale più alta riguarda le fasce 44-54 e 55-64. Geograficamente parlando, la zona di maggiore incidenza è il Nord-Est, Veneto in testa. Sì, il mitico Nord-Est italiano che era tra le regioni più ricche d’Europa, se non la più ricca ed economicamente vivace… Il suicidio è sempre un atto supremo di viltà, per giunta irrimediabile, per questo la Chiesa lo ha condannato nei secoli con la sanzione massima, la scomunica. Certo, nessuno può sapere cosa passi per la testa di uno in quei momenti. Ma anche la depressione grave è curabile. Quel che non si può curare è il modo di pensare, la scala di valori di cui il suicida è preda. E’ ovvio che si tratta di persona che non crede nell’aldilà, è uno che ritiene che oltre alla vita terrena non ci sia nulla, è uno che pensa, così, di smettere di soffrire. Sia che lo faccia per motivi economici o esistenziali o sanitari. Se solo sospettasse che lì dove va starà anche peggio (così insegna il cristianesimo agli aspiranti suicidi), certo non lo farebbe. Ma gli hanno insegnato che il Paradiso e l’Inferno non esistono, che la vita è solo questa e bisogna godersela. E tale magistero gli è stato inculcato in ogni modo, ogni secondo, da quando è nato. Ma questa rimane lo stesso Valle di Lacrime, e quando un rovescio economico, un abbandono insopportabile, un lutto improvviso, una malattia grave, inficia la «qualità» della vita, ecco la tentazione di andarsene in quel Nulla descritto da Umberto Eco nel finale de Il nome della rosa, dove c’è solo silenzio e non si soffre più. Fa bene papa Francesco a insistere sull’esistenza del diavolo, “mendax et homicida ab initio”, colui che può perdere oltre il corpo anche l’anima».
In una società come questa che, dopo la fede, sta perdendo il retto uso della ragione, non fa troppa meraviglia che si stia diffondendo tale fragilità psicologica che renda impossibile a molti, soprattutto giovani, di affrontare le crescenti difficoltà del vivere. Che il tessuto sociale in cui viviamo sia tale da favorire sempre di più l’instabilità psicologica delle nuove generazioni, inevitabilmente disorientate dalla mancanza di legami forti, significativi, stabili, di esempi trascinanti nella virtù, anche all’interno delle famiglie, mi pare evidente. Se ciò, in molti casi, è bastevole a causare ciò di cui parlava Cammilleri, non è comunque sufficiente a spiegare la profondità della crisi culturale che stiamo attraversando e che si caratterizza in un disorientamento profondo circa il nostro vivere, le prospettive e il suo significato.
Nel 399 a. C. muore uno tra i più grandi pensatori della storia della filosofia: Socrate. Un non cristiano, non per scelta, bensì per “necessità”: non ha avuto modo di conoscere Cristo. Poco prima che giunga il momento di bere la cicuta che gli avrebbero somministrata a motivo della condanna civile subita, egli si intrattiene con i suoi amici-discepoli, per parlare della morte. Subito manda i suoi saluti ad un amico non presente, Eveno, e lo invita a seguirlo al più presto. Questo suscita la comprensibile sorpresa dell’amico Simmia: «Che invito è mai questo che mandi ad Eveno, o Socrate? – dice Simmia – Mi è accaduto di trovarmi con lui molte volte, ma, per la verità, dall’impressione che ho avuto, non mi sembra che abbia alcuna intenzione di ubbidirti». E Socrate risponde: «“Ma come?... Non è un filosofo Eveno?” “Mi pare di sì”» dice Simmia «“Allora sarà disposto a seguirmi non solo Eveno, ma anche chiunque altro pratichi la filosofia come si deve; però non dovrà fare violenza a se medesimo, perché dicono che questo non sia giusto… E ti farà, forse, meraviglia che anche per costoro, per i quali è meglio morire, non sia cosa santa fare a se stesso questo beneficio e che, invece, debbano stare ad aspettare un altro benefattore!» (cc. V-VI).
Questo è ciò che viene riportato da Platone nel dialogo Il Fedone, dove si narrano i colloqui di Socrate e dei discepoli prima della morte del maestro. In esso appare chiaro che il vero filosofo è chiamato a meditare sulla morte in modo assiduo ed intenso e a convincersi, attraverso l’uso di una pedagogia fatta attraverso i discorsi persuasivi della retta ragione, che non si deve avere paura di questo momento conclusivo della propria vita.
Il Nostro, secondo il resoconto fatto da Platone nel dialogo Apologia di Socrate, aveva appena confessato davanti ai giudici, in propria difesa, che Dio stesso gli aveva affidato un compito nella sua vita, quello di vivere filosofando, esaminando sé e gli altri, per cui sarebbe davvero grave se egli ora, per paura della morte, venisse meno alla sua chiamata, ai principi e alle direttive secondo cui è vissuto fino allora e disertasse «il campo… Debbo ubbidire a Dio piuttosto che a voi» – dichiara pertanto l’accusato – «e finché avrò un soffio di vita e le forze me lo concederanno, non cesserò di filosofare, di esortarvi e di ammonire chiunque di voi mi capiterà» (c. XVII). Dopo la sentenza sfavorevole, Socrate dichiara con tranquillità che per lui il morire è il «meglio», perché andrà al cospetto di veri giudici che lo giudicheranno in modo retto, diversamente da coloro che gli stanno di fronte, e perché «a colui che è buono non può accadere nulla di male, né da vivo né da morto, e che gli dei si prenderanno cura della sua sorte» (c. XXXIII). Ecco le disposizioni con cui Socrate si avvicina al momento finale della sua vita.
Nel dialogo il Fedone, poi, il nostro Filosofo, col solo ausilio della ragione, preciserà che cosa attende ogni uomo dopo la morte. Dopo avere tentato di dimostrare che l’anima è immortale, raccomanda di avere cura di lei, perché essa non si può illudere di finire nel nulla, anzi «il pericolo, ora, risulterà terribile, se non si ha cura di essa. Infatti, se la morte fosse totale liberazione da tutto, sarebbe un bel guadagno davvero per i malvagi liberarsi, quando muoiono, dal corpo e, nello stesso tempo, liberarsi, insieme con l’anima, anche delle loro malvagità. Ma ora, dal momento che ci è risultato che l’anima è immortale, non le rimane nessun altro modo per sottrarsi ai mali e salvarsi, se non diventare buona e sapiente quanto più è possibile. Infatti, l’anima se ne va all’Ade, non portando nient’altro con sé, se non la sua formazione spirituale e il modo in cui ha vissuto, le quali cose, come si racconta, sono per i morti di grandissima utilità o di grandissimo danno, fin dal momento in cui incominciano il viaggio nell’altro mondo» (c. LVII). Lì infatti l’anima viene guidata, secondo Socrate, in luoghi diversi a seconda del tipo di vita che ha condotto nella sua esistenza: la terra dove non ci sono malattie, dove si raggiunge un livello altissimo di felicità per la presenza degli dei e la possibilità di comunione con quelli è riservata ai buoni, a coloro che si sono purificati con la filosofia, con il vero amore per la sapienza. Per coloro che hanno commesso delle colpe esistono delle pene vere e proprie nella terra dello “spavento”, il Tartaro, dove finiscono coloro che hanno compiuto cose gravissime e non si sono pentiti; altri possono subire pene minori e così purificarsi in luoghi paludosi. Vale la pena rileggere queste pagine, frutto di una ragione conscia dei propri limiti e ben formata per il contesto culturale in cui Socrate è vissuto, e perciò sempre aperta e anelante alla rivelazione di un dio, che renda più sicuro il viaggio della vita e della conoscenza (cfr. c. XXXV).
La retta ragione ci porta a capire che l’anima ha delle caratteristiche che la mostrano grandemente superiore al corpo e ad esso indipendente nella sua sussistenza. Questo, che Socrate intuì, ci eleva in una dimensione che non sopporta la banalizzazione, dal nostro Filosofo smascherata come interessata, della nostra morte come un annullamento dolce verso l’insensibilità. Le nostre attività intellettuali non verranno meno a motivo del loro essere spirituale!! Ecco che il suicidio finisce per rientrare, a parere di Socrate (che, lo ripetiamo, non era cristiano), tra le attività non degne del nostro essere uomini. Egli infatti sostiene che, nella vita, noi siamo come «chiusi in una custodia» (c. VI). “En frurà” è un’espressione complessa propria della lingua greca, che indica nel contempo “recinto per il bestiame”, “prigione” e “posto di guardia”. Così noi, secondo il Nostro, saremmo un possesso ben custodito da dei che si prendono cura di noi e ci pongono nella vita come dei soldati, ognuno al nostro posto, così che non abbiamo il diritto di disertare da esso, venendo meno alla nostra missione, come già visto. E si viene meno ad essa anche togliendosi la vita prima che sia venuto il momento deciso dagli dei. «Che gli uomini più savi non si rammarichino di uscire da questo servizio in cui sono tutelati dai migliori tutori che esistano, quali sono appunto gli dei, è cosa che non ha senso. Né si può credere che uno sia convinto di provvedere a se stesso con maggiore vantaggio, una volta liberatosi da quel servizio. Un pazzo potrebbe credere questo e pensare che si deve fuggire dal padrone; e solo un pazzo non penserebbe che non si deve fuggire dal padrone buono, ma che, anzi, conviene rimanere con lui e che, fuggendo, commetterebbe una follia. Invece chi è saggio desidera stare sempre accanto a chi è migliore di lui» (c. VII). Questo viene detto con fermezza da Cebete, amico di Socrate. La risposta del maestro è che ciò è verissimo, tenendo conto che chi lascia la vita, non per un atto di violenza su se stesso e contro gli dei che lo custodiscono con cura, se è buono, è destinato ad andare in compagnia di dei buonissimi e di uomini più saggi di quelli sulla terra. E così dimostra che non il suicidio, bensì la morte naturale è addirittura da desiderare da parte di un uomo sapiente.
Questa è la nostra tradizione di pensiero, cui si cerca ora di contrapporre il nichilismo di comodo, chiassoso e violento di marca sessantottina, quello di origine scientista e quello, più raffinato e colto, ma non meno violento, che prende le mosse da gnosi, Lutero, Nietzsche ed esistenzialismo. Dalla gnostica divinità malvagia, responsabile della creazione del mondo materiale, dal rifiuto luterano per la filosofia greca, unito alla diffidenza nei riguardi dell’essere, alla concezione della creazione come del tutto rovinata dal peccato originale, dall’illuministica ragione svincolata da Dio, si passa alla nietzschiana “morte di Dio”, quale via aperta al nichilismo. Quell’espressione, infatti, non indica la morte di un’Entità che, di per se stessa non potrebbe venire meno, bensì di tutto il patrimonio di pensiero, proprio della nostra tradizione occidentale, che ha aperto gli orizzonti della nostra mente alle realtà spirituali, a qualcosa, cioè, che, andando oltre quanto riusciamo a vedere, giustifica il reale e ne costituisce la parte più profonda. E’ evidente che, in tal modo, la metafisica, la morale e la religione finiscono per non avere più ragion d’essere e tutto questo, come Nietzsche stesso afferma, “perché la verità è brutta” (La volontà di potenza, 598). In questo autore viene così smascherato, in certo qual modo, quel processo di pensiero che nell’idealismo aveva visto la coincidenza di essere e di pensiero, cosicché tutta la realtà viene giustificata non più da un Ente spirituale superiore, bensì, in definitiva, dal pensiero soggettivo che non è altro che l’espressione di una volontà di potenza svincolata da ogni legge. Il ricupero dell’essere nella filosofia heideggeriana, poi, non sarà altro che una conferma di questo processo nichilistico, poiché lì l’uomo è un protendersi verso l’essere, quell’essere che però assume i connotati di qualcosa che gli si sottrae continuamente, sicché l’uomo è in fondo proteso verso il nulla.
Ecco che noi respiriamo ormai da molto tempo i miasmi di questo clima culturale che ci vuol far credere che possiamo, anzi, dobbiamo vivere secondo le nostre voglie, tanto nulla ce lo può impedire. Tale illusione si ripresenta quindi alla fine della nostra vita, allorché a nulla e a nessuno avremo da rendere conto. Illusione, questa, che non può che crollare al contatto con la realtà.