Birmania: “una battaglia fra dhamma e ah-dhamma”
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Il Papa all’Angelus: «Seguo con grande trepidazione i gravissimi eventi di questi giorni in Myanmar e desidero esprimere la mia spirituale vicinanza a quella cara popolazione nel momento della dolorosa prova che sta attraversando. Mentre assicuro la mia solidale ed intensa preghiera e invito la Chiesa intera a fare altrettanto, auspico vivamente che venga trovata una soluzione pacifica, per il bene del Paese». [30 settembre 2007]
“Carissimi … grazie. Pregate per noi. Le cose sono molto brutte. Oggi hanno ammazzato molti e sparano. I soldati sono stati drogati con pillole di ecstasy. I morti non possono essere contati. Pregate. Per favore, quando parlate ad altri del nostro paese, non nominate il mio nome perché è pericoloso. Io per il momento sono a … e vedo tutto. Soffro e piango. Preghiamo per la pace e la dignità umana come è stata creata. Grazie per i vostri aiuti. Ora mi servono molto. Se si prolunga questa crisi la gente non avrà più da mangiare. Negozi chiusi e i trasporti non esistono. Noi preghiamo” [da Avvenire]
La Birmania è uno dei paesi più isolati dal mondo, informazione censurata, internet filtrata, contatti con l’esterno minimi. Il regime che si autodefinisce “socialismo-buddista”, ha represso ogni forma di religiosità, sino a inserire la non esistenza di Dio, naturalmente scritto con la “d” minuscola, nella costituzione.
Il Governo militare ha eletto a “religione di Stato” il buddismo, a patto però che i monaci, che hanno grande influenza sulla società birmana, esercitassero questa influenza a favore del Governo.
Quel che è chiaro è che l’uccisione dei monaci negli scontri di questi giorni, segna ormai la totale sconfessione da parte delle autorità buddiste verso la giunta, che ha creduto di poter non tenere conto della religiosità del popolo, senza parlare di musulmani e cristiani, che in quanto minoranza, sono stati perseguitati e costretti a conversioni forzate.
Ma la storia, ancora una volta insegna che non si può non tenere conto della tradizione di un popolo.
Nonostante la censura, le immagini dei militari che infieriscono sui giovani monaci di Yangoon hanno fatto il giro del mondo, i soldati danno la caccia ai giornalisti e hanno ucciso due reporter.
La Birmania martoriata da decenni di violenta dittatura, è il primo produttore di metanfetamine al mondo, il secondo per produzione di oppio, il primo per bambini soldato e per la presenza di lavoro forzato.
Centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini sono tuttora costretti al lavoro forzato, da parte sia dei militari, sia delle autorità locali, e sono spesso obbligati alle deportazioni forzate, mentre sono comuni la detenzione e le esecuzioni, torture, stupri, utilizzati come mezzo di potere.
Dopo il massacro del 1988, e le elezioni annullate del 1990, l’opposizione birmana è costretta all’esilio o al lavoro sotterraneo.
Aung San Suu Kyi, leader della Lega per la Democrazia, premio Nobel per la pace, è il simbolo della lotta per la libertà e la democrazia, anche se le elezioni democratiche da lei vinte sono state annullate e lei è da dodici anni costretta agli arresti e al silenzio. Ma oggi, le nuove generazioni di studenti si richiamano a quelli che si erano ribellati vent’anni fa, e in questi giorni sono scesi nelle strade. Poi ci sono i monaci, da sempre parte rispettata e importante della società birmana.
Essendo il Myanmar posto tra Cina e India, due grandi potenze emergenti dell’Asia, lo sfruttamento delle risorse birmane fa gola ad entrambi i paesi.
La Cina fornisce all’esercito birmano moderne armi e attrezzature, consapevole che quelle armi servono ai militari a mantenere il potere e a massacrare chi osa opporsi al loro regime, come nel caso della popolazione Karen che da anni nel sud del paese combatte contro il potere centrale e che negli ultimi mesi ha dovuto subire una massiccia offensiva costata centinaia di morti.
Eppure in questi giorni la situazione sembra essere sfuggita definitivamente di mano al regime dei militari, e il mondo non ha più potuto fingersi distratto da altri problemi, anche se non dimentichiamo che per anni vi è stata una sorta di “smemoratezza collettiva” nei confronti della Birmania.
Ora tutti sembrano guardare a quanto sta accadendo con apprensione.
La Cina teme che una vittoria della protesta capitanata dai monaci, possa influire sulla situazione già tesa tra Cina e Tibet (altra parte del mondo finita nel dimenticatoio), il presidente degli Stati Uniti nel suo discorso al Palazzo di vetro, durante i primi giorni della protesta si è detto solidale con il popolo birmano,
il governo giapponese ha annunciato che invierà un rappresentante in Myanmar per indagare sull’omicidio del fotografo Kenjii Nagai, colpito nel corso di una carica delle forze dell’ordine contro i manifestanti vicino alla pagoda Sule di Yangon.
A Giacarta, una cinquantina di funzionari del ministero degli Esteri vestiti di rosso hanno osservato un minuto di silenzio in memoria delle vittime. Altre proteste si sono registrate a Manila, a Phnom Penh e in Thailandia, dove vivono circa un milione di profughi birmani.
Intanto, la giunta birmana ha concesso l’autorizzazione all’inviato speciale dell’Onu Ibrahim Gambari ad entrare nel paese, e “miracolosamente” Internet ha ripreso a funzionare.
Padre Piero Gheddo, decano dei missionari italiani del PIME, in un’intervista ha dichiarato: «Così come in altri Paesi, vedi il Vietnam, la popolazione è esausta della cappa dittatoriale. Se potesse la farebbe saltare domattina». E sul perché proprio in quell’angolo del pianeta resistano gli ultimi regimi di matrice comunista, Gheddo invita a ricordare la potente fascinazione del maoismo nel ‘900: «Bisogna tenere conto dell’attrazione enorme che ha esercitato Mao Tse Tung quando ha conquistato il potere tra il ‘46 e il ‘48. Gli asiatici, ovviamente non solo in Cina, sentivano di potersi liberare dall’arretratezza, dalla povertà, dalla schiavitù… allora non si vedeva come Mao attaccasse brutalmente la religione, perché appariva solo come un grande guerrigliero. Anche in Africa ci sono stati una quindicina di Paesi diventati comunisti per il fascino di Mao ben più che dell’Unione Sovietica». Oggi quella storia sembra arrivata al capolinea.
Dio lo voglia.