“Spe salvi facti sumus”
“SPE SALVI facti sumus” - nella speranza siamo stati salvati, dice san Paolo ai Romani e anche a noi (8,24)- Autore:
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«La “redenzione”, la salvezza, secondo la fede cristiana, non è un semplice dato di fatto. La redenzione ci è offerta nel senso che ci è stata donata la speranza, una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto e accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino. Ora, si impone immediatamente la domanda: ma di che genere è mai questa speranza per poter giustificare l’affermazione secondo cui a partire da essa, e semplicemente perché essa c’è, noi siamo redenti? E di quale tipo di certezza si tratta?» [Benedetto XVI, Spe Salvi, Introduzione, n. 1].
Fin dall’introduzione Benedetto XVI precisa sia il carattere soprannaturale della speranza che redime, sia che la grande promessa non mette da parte la natura, al contrario: “La “redenzione”, la salvezza, secondo la fede cristiana, non è un semplice dato di fatto”. Così il Catechismo della Chiesa Cattolica al numero 1817 ne dà l’essenzialità di fede: “La speranza è la virtù teologale per la quale desideriamo il Regno dei cieli e la vita eterna come nostra felicità, riponendo la nostra fiducia nelle promesse di Cristo e appoggiandoci non sulle nostre forze, ma sull’aiuto della grazia dello Spirito Santo”.
A questo riguardo vorrei riproporre quanto negli esercizi ai sacerdoti di Comunione e liberazione nel 1986 a Collevalenza il Cardinal Ratzinger propose a conclusione della meditazione sulla speranza. “Una bella immagine della speranza l’ho trovata nelle prediche di Avvento di San Bonaventura. Il dottore serafico dice ai suoi uditori che il movimento della speranza assomiglia al volo dell’uccello, il quale per volare distende le sue ali più largamente che può e impiega tutte le sue forze per muovere le ali, rende per così dire tutto se stesso movimento e così va in alto, vola appunto. Sperare è volare, dice Bonaventura: la speranza esige da noi un impegno radicale; richiede da noi che tutte le nostre membra diventino movimento, per sollevarci dalla forza di gravità della terra, per ascendere alla vera altezza del nostro essere, alle promesse di Dio. Il dottore francescano sviluppa allora una bella sintesi della dottrina dei sensi esterni ed interni. Chi spera - così egli dice - “deve alzare il capo, rivolgendo verso l’alto i suoi pensieri, verso l’altezza della nostra esistenza, cioè verso Dio. Deve alzare i suoi occhi a percepire le dimensioni della realtà. Deve alzare il suo cuore disponendo il suo sentimento per il sommo amore e per tutti i suoi riflessi nel mondo. Deve muovere anche le sue mani nel lavoro…”. Risuona qui anche l’essenziale di una teologia del lavoro, che appartiene al movimento della speranza e, compiuto correttamente, ne è una dimensione”. E’ la responsabilità di plasmare il mondo e l’umanità, e in questa responsabilità vi è una speranza che nuota contro la corrente della vanità.
Il soprannaturale, la grande promessa, la grande speranza non mette da parte la natura con le piccole speranze, al contrario
Rende possibile e chiama l’impegno di tutte le nostre forze per la completa apertura del nostro essere, per lo sviluppo di tutte le sue possibilità. “In altre parole - sempre Ratzinger nel 1986 -: la grande promessa della fede non distrugge il nostro agire e non lo rende superfluo, ma gli conferisce finalmente la sua forma (divino - umana), il suo luogo e la sua libertà. Un esempio significativo per questo viene offerto dalla storia monastica. Essa comincia con la fuga speculi, la fuga da un mondo che si chiudeva in sé nel deserto, nel non mondo. Là domina la speranza che proprio nel non mondo, nella povertà radicale, troverà il tutto di Dio, la vera libertà. Ma precisamente questa libertà della nuova vita ha fatto iniziare nel deserto la nuova città, una nuova possibilità di vita umana, una civiltà della fraternità, da cui si formarono isole della vita e della sopravvivenza nel grande tramonto dell’antica civiltà”. “Cercate prima il regno di Dio e tutto il resto vi sarà posto dinnanzi”, dice il Signore (Mt 6,33). La storia conferma la sua parola: aggiunge alla speranza teologica un ottimismo tutto umano.
“Cielo” per noi credenti è partecipazione alla forma d’esistenza del Risorto e insieme compimento di ciò che inizia nel battesimo
Nel linguaggio figurato degli antichi simboli, il modo di esistere in cui il Risorto è entrato, primo della serie, nell’ordine decisamente diverso che riguarda Lui, tutta la famiglia umana, la storia e l’intero universo, è quello di “sedere alla destra del Padre”, ovvero la partecipazione al potere regale che Dio esercita sopra la storia, a quel potere che pur nel nascondimento è presente, è reale. Il Cristo glorificato non è dunque “tolto dal mondo”, ma è al di sopra del mondo, e con ciò in rapporto al mondo. “La fede - Spe Salvi, n.7 - non è soltanto un personale protendersi verso le cose che devono venire ma sono ancora totalmente assenti; essa ci dà qualcosa. Ci dà ora qualcosa della realtà attesa, e questa realtà presente costituisce per noi una “prova” delle cose che ancora non si vedono. Essa attira dentro il presente il futuro, così che quest’ultimo non è più il puro “non - ancora”. Il fatto che questo futuro esiste già, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtà futura, e così le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future”. “Cielo” significa per noi credenti partecipazione a questa forma d’esistenza di Cristo risorto e quindi insieme il compimento di ciò che inizia col battesimo. Di conseguenza al cielo non può essere data alcuna definizione topografica né lo si può collocare fuori o dentro la nostra struttura dello spazio; tuttavia esso non può essere neppure separato - intendendolo semplicemente come “situazione” - dall’insieme del cosmo. Piuttosto esso significa quel potere universale che compete al nuovo “spazio” del corpo di Cristo, alla comunione dei santi.
Il cielo, la grande speranza sarà perfetta soltanto quando saranno riunite tutte le membra del corpo del Signore. Questa perfezione del corpo di Cristo cioè della Chiesa, di noi comporta insieme la risurrezione della carne, e significa “parusia” in quanto con ciò si è compiuta in pieno la presenza, finora soltanto iniziata, di Cristo e in quanto abbraccia tutti coloro che devono essere salvati, ivi compreso l’universo in cieli nuovi e terra nuova. Per questo il cielo conosce due fasi storiche: l’elevazione del Signore instaura il nuovo “essere uno” tra Dio e l’uomo e con ciò il “cielo”: il completamento del corpo del Signore a pleròma del “Cristo totale”, tutto in tutti e in tutto lo perfeziona nella sua reale interezza cosmica.
La salvezza del singolo sarà completa e piena soltanto quando sarà compiuta la salvezza dell’universo e di tutti gli eletti, poiché questi non sono nel cielo soltanto separatamente gli uni accanto agli altri, ma costituiscono tutti insieme, quale unico corpo di Cristo, essi stessi il cielo, la grande promessa, la grande speranza anticipata concretamente da tante piccole speranze che la anticipano. “La nostra speranza - Spe salvi n. 48 - è sempre essenzialmente anche speranza per gli altri; solo così essa è veramente speranza anche per me. Da cristiani non dovremmo mai domandarci solamente: come posso salvare me stesso? Dovremmo domandarci anche: che cosa posso fare perché altri vengano salvati e sorga anche per altri la stella della speranza? Allora avrò fatto il massimo anche per la mia salvezza personale”. Allora l’intero creato sarà un “cantico”, un gesto con cui l’essere si libera nel tutto e insieme un entrare del tutto nella sua verità più propria, una letizia in cui tutte le domande avranno risposta ed esaurimento. Nell’orizzonte di questa grande speranza Benedetto XVI ci offre un meraviglioso percorso ad iniziare con l’affermazione che “speranza” è l’equivalente di “fede”.