In attesa della seconda enciclica di Benedetto XVI “Spe salvi”
“Per la speranza noi siamo salvati” (Rm 8,24)- Autore:
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«Il Discorso della montagna è la chiamata all’imitazione di Gesù Cristo. Egli soltanto è “perfetto come è perfetto il Padre nostro che è nei cieli” (l’esigenza che arriva all’essere, in cui le singole istruzioni del Discorso si concentrano e si uniscono: 5,48). Non possiamo da noi essere “perfetti come il Padre nostro che è nei cieli”, ma lo dobbiamo per corrispondere al compito della nostra natura. Noi non lo possiamo, ma possiamo seguire Lui, aderire a Lui, “diventare suoi”. Se noi apparteniamo a Lui come sue membra, allora diventiamo per partecipazione ciò che egli è; la sua bontà diventa la nostra…
Il secondo aspetto concerne il futuro nascosto nel presente. Il Discorso della montagna è una parola di speranza. Nella comunione con Gesù l’impossibile diventa possibile: il cammello passa per la cruna dell’ago (Mc 10,25). Nell’essere una cosa sola con lui diventiamo anche capaci della comunione con Dio e così della salvezza definitiva. Nella misura della nostra appartenenza a Gesù si realizzano anche in noi le qualità di Gesù: le Beatitudini, la perfezione del Padre. La Lettera agli Ebrei chiarisce questo nesso di cristologia e speranza, quando dice che noi possediamo un’ancora sicura e ferma che arriva fino all’interno del santuario, dietro la tenda, là dove Gesù è entrato (6,19s). L’uomo nuovo non è utopico: egli esiste, e nella misura in cui siamo uniti a Lui, la speranza è presente, niente affatto puro futuro. La vita eterna e la vera comunione, la liberazione non sono utopia, pura attesa dell’inconsistente. La “vita eterna” è la vita reale, anche oggi è presente nella comunione con Gesù. Agostino ha sottolineato questa presenza della speranza cristiana nella sua esposizione del versetto della Lettera ai Romani: “Per la speranza noi siamo salvati” (8,24). Egli dice in proposito: Paolo non insegna che ci sarà speranza per noi, no, egli dice: Noi siamo salvati (Spe salvi). Certamente non vediamo ancora ciò che speriamo, ma siamo già ora corpo del Capo in cui è già tutto presenza ciò che speriamo» [Joseph Ratzinger, Guardare Cristo. Esercizi di fede, speranza e carità, Milano 1989].
Nel 1986, a Collevalenza ho partecipato agli esercizi per sacerdoti e Mons. Luigi Giussani aveva invitato a tenerli Joseph Ratzinger che li ha svolti sulla scia di un volume in cui Josef Pieper tratta filosoficamente di “Amare, sperare, credere”, che oggi il Papa, ampliando le tre “virtù teologali” sul piano teologico e spirituale nell’essenzialità magisteriale sono diventate già due encicliche in attesa della terza sulla fede.
E siccome è possibile comprendere la vera essenza della speranza cristiana e riviverla (e questo è veramente urgente, come il Convegno di Verona ha sottolineato) solo se si guarda in faccia alle imitazioni deformate che oggi cercano di insinuarsi dappertutto, il card. Ratzinger ci ha fatto comprendere la grandezza e la ragione della speranza cristiana mettendo in luce il falso splendore delle sue imitazioni profane, secolarizzate.
Imitazioni profane, secolarizzate della speranza cristiana
E’ partito raccontando il resoconto di un suo amico che fece un viaggio in Olanda riportando di una Chiesa che faceva parlare di sé come di una chiesa migliore per il domani. E trovava questo in contraddizione con seminari vuoti, ordini religiosi senza vocazioni, preti e religiosi che in gruppi voltano le spalle alla loro vocazione, con la scomparsa della confessione, la drammatica caduta alla Messa e via dicendo. Ma dispetto di tutto è la valutazione conclusiva: una Chiesa grandiosa, perché non c’era nessuna parte di pessimismo, tutti andavano incontro al futuro pieni di ottimismo e il fenomeno dell’ottimismo faceva dimenticare ogni decadenza e ogni distruzione; bastava a compensare ogni negativo. Questo ottimismo metodico veniva prodotto da chi interpretava il Concilio con l’ermeneutica cioè l’interpretazione della discontinuità e della rottura, per cui non c’era da spaventarsi del dissolversi del vecchio modo di essere Chiesa per il rinascere di una Chiesa completamente nuova: dal pre-concilio al post-concilio. L’ottimismo metodico si abbinava a una speranza, mentre dissolvendo il rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto- Chiesa che il Signore ci ha donato fino al compimento della storia, era una parodia della fede e della speranza. Però questo ottimismo si abbinava culturalmente e politicamente alla fede liberale nel progresso perenne: il surrogato borghese, secolarizzato della speranza perduta della fede.
In contrapposizione alla fede liberale c’è il pensiero di Ernest Bloch per cui la speranza è l’ontologia del non ancora esistente. Una giusta filosofia non deve mirare a ciò che è (sarebbe conservatorismo reazionario ogni metafisica cioè la realtà o verità), ma a preparare ciò che ancora non è. Giacché ciò che è è, degno di perire; il mondo veramente degno di essere vissuto dev’essere ancora costruito. Il compito dell’uomo creativo è dunque quello di creare il mondo giusto che ancora non esiste; per questo elevato compito la filosofia deve svolgere una funzione decisiva: essa è il laboratorio della speranza, l’anticipazione del mondo di domani nel pensiero, anticipazione di un mondo ragionevole e umano, non più formatosi mediante il caso, ma pensato e realizzato dalla nostra ragione. Per Bloch e per alcuni teologi che lo seguono l’ottimismo è la forma e l’espressione della fede nella storia, ed è perciò doveroso per una persona che vuole servire la liberazione, l’evocazione rivoluzionaria del mondo nuovo e dell’uomo nuovo. La speranza è perciò la virtù di un’ontologia, un’etica, una morale di lotta, la forza dinamica della marcia verso l’utopia.
L’“ottimismo”, che seduce molti, è la virtù teologica di un Dio nuovo e di una nuova religione, la virtù della storia divinizzata, di una “storia” di Dio, dunque del grande Dio delle ideologie moderne e della loro promessa. Questa promessa è l’utopia, il realizzarsi per mezzo della “rivoluzione”, che per sua parte rappresenta una specie di divinità mitica, una “figlia di Dio” in rapporto con il “Dio- Padre” “Storia”. Nel sistema cristiano delle virtù la disperazione, cioè la radicale opposizione verso questa fede e questa speranza immanente, viene qualificata come peccato contro lo Spirito Santo, perché esclude il suo potere di guarire e di perdonare, e si nega così la redenzione. Nella nuova religione vi corrisponde il fatto che il “pessimismo” è il peccato di tutti i peccati, poiché il dubbio per l’ottimismo, per il progresso, per l’utopia è un assalto frontale allo spirito dell’età moderna, è la contestazione del suo credo fondamentale su cui si fonda la sua sicurezza, che è minacciata tuttavia di continuo per la debolezza di quella divinità illusoria che è la storia.
”Tutto questo - racconta Ratzinger mostrando una sua esperienza - mi venne di nuovo in mente quando esplose il dibattito a riguardo del mio Rapporto sulla fede, pubblicato nel 1985. Il grido di rivolta sollevato da questo libro senza pretese culminava nell’accusa: è un libro pessimistico. Da qualche parte si tentò perfino di vietarne la vendita, perché una eresia di quest’ordine di grandezze semplicemente non poteva essere tollerata. I detentori del potere d’opinione misero il libro all’indice. La nuova inquisizione fece sentire la sua forza. Venne dimostrato ancora una volta che non esiste peccato peggiore contro lo spirito dell’epoca che il diventare rei di una mancanza di ottimismo. La domanda non era affatto: è vero o falso ciò che si afferma, le diagnosi sono giuste oppure no; ho potuto constatare che non ci preoccupava di porsi simili questioni fuori moda. Il criterio era molto semplice: è ottimistico oppure no, e davanti a questo criterio il libro era senz’altro fallimentare. La discussione artificialmente accesa sull’uso della parola “restaurazione” che non aveva niente a che fare con quanto detto nel libro, era solo una parte del dibattito sull’ottimismo: sembrava in questione il dogma del progresso. Con la collera che solo un sacrilegio può evocare si picchiava su questa negazione del Dio Storia e della sua promessa. Pensai a un parallelo in campo teologico. Il profetiamo viene da molti congiunto da una parte con la “critica” (rivoluzione, “ermeneutica della discontinuità e della rottura del Vaticano II”), dall’altra con “ottimismo” e in questa forma reso criterio centrale della distinzione fra vera e falsa teologia”.
La vera essenza della speranza cristiana cioè l’incarnazione del Logos e Amore di Dio in Gesù Cristo
L’ottimismo ideologico o atto di fede delle ideologie moderne, questo surrogato della speranza cristiana, deve essere distinto da un ottimismo di temperamento e di disposizione. Simile ottimismo è semplicemente una qualità naturale psicologica che si può unire con la speranza cristiana come con l’ottimismo ideologico, ma per sé non coincide né con l’una né con l’altro. L’ottimismo di temperamento è una cosa bella e utile nelle angosce della vita: chi non si rallegra per la naturale letizia e fiducia che irradia da una persona? Chi non se l’augura per se stesso? Come tutte le disposizioni naturali, un simile ottimismo è anzitutto una qualità moralmente neutrale; di nuovo come tutte le disposizioni deve essere sviluppato e coltivato per formare positivamente la fisionomia morale di una persona. Allora esso può crescere mediante la speranza cristiana e diventare ancora più puro e più profondo; viceversa in un’esistenza vuota e falsa esso può decadere e divenire pura facciata. Importante è non confonderlo con l’ottimismo ideologico, ma anche non identificarlo con la speranza cristiana, la quale può crescere su di esso, ma come virtù teologica è una qualità umana di profondità di gran lunga maggiore e può emergere anche in un temperamento pessimistico.
L’ottimismo ideologico può reggersi culturalmente su base sia liberale che marxista. Nel primo caso esso è fede nel progresso mediante evoluzione e mediante lo sviluppo della storia umana scientificamente guidata. Nel secondo caso è fede nel movimento dialettico della storia, nel progresso mediante lotta di classe e rivoluzione. Le divergenze tra queste decorrenti fondamentali del pensiero moderno sono manifeste; entrambe si sono frantumate in varianti molteplici del modello di fondo: “eresie” che discendono, pur in politiche opposte, dallo stesso ceppo cioè un ottimismo di una secolarizzazione della speranza cristiana; si fonda nel passaggio dal Dio Trascendente al Dio Storia. In questo sta il profondo irrazionalismo di queste strade, a dispetto di tutta la vantata razionalità di superficie.
Lo scopo dell’ottimismo è l’utopia del mondo definitivamente e per sempre libero e felice; la società perfetta, in cui la storia attinge la sua meta e manifesta la vantata sua divinità. La meta prossima è il successo del nostro poter fare. Il fine della speranza cristiana, invece, è il regno, la signoria di Dio, cioè l’unione di uomo e mondo con Dio mediante un atto di divino potere e amore già completo nel crocefisso risorto centro della storia e del mondo, che progressivamente accade nella Chiesa a servizio di tutti e di tutto. Lo scopo prossimo, che ci indica la via e ci conferma la giustezza del grande fine, è la continua presenza di quest’amore e di questo potere che ci accompagna nella nostra attività e ci soccorre là dove finiscono le nostre possibilità.
Scopo delle ideologie è in ultima analisi il successo, in cui possiamo realizzare i nostri piani e desideri. Il nostro fare e potere, in cui confidiamo, sa di essere condotto e confermato da una irrazionale tendenza evolutiva di fondo. La dinamica del progresso fa sì che tutto sia giusto.
Lo scopo invece della speranza cristiana è un dono, il dono dell’amore, che ci viene dato al di là delle nostre possibilità operative; la speranza che esiste questo dono che non possiamo forzare, ma che è la cosa più esenziale per l’uomo che, dunque, non attende il vuoto con la sua fame infinita; garanzia di tanto sono gli interventi dell’amore di Dio nella storia, nel modo più forte la figura di Gesù Cristo, in cui ci viene incontro l’amore divino.
Il prodotto sperato dell’ottimismo dobbiamo alla fine realizzarlo noi stessi e allora aver fiducia che il corso in sé cieco dell’evoluzione alla fine in congiunzione col nostro proprio fare sfoci nel giusto fine. La promessa della speranza, invece, è dono che ci è già stato in qualche modo dato e che attendiamo con fiducia da colui che solo può davvero regalare: da quel Dio che ha già costruito la sua tenda nella storia con Gesù. Tutto ciò significa poi: nel primo caso, nell’ottimismo ideologico, non c’è nulla in realtà da sperare; ciò che aspettiamo dobbiamo farcelo noi stessi e non ci viene dato nulla al di là del nostro potere. Nel secondo caso, nella speranza teologica, esiste una reale speranza al di là delle nostre possibilità, speranza nell’amore illimitato, che è pure potere illimitato.
“L’ottimismo ideologico - osserva Ratzinger - è in realtà pura facciata di un mondo senza speranza, un mondo che con questa illusoria facciata vuole nascondere la sua propria disperazione. Solo così si spiega l’angoscia smisurata e irrazionale, questa paura traumatica e violenta che erompe, quando qualche incidente nello sviluppo tecnico o economico suscita dubbi sul dogma del progresso. Il gusto del terrificante, il violento atteggiamento di un’angoscia reciprocamente fomentata, che abbiamo vissuto dopo Chernobyl, aveva in sé qualcosa di irrazionale e di spettrale, comprensibile unicamente se dietro c’è qualcosa di più profondo che non un caso disgraziato ma, nonostante la sua serietà, limitato. La violenza di queste esplosioni di angoscia è una specie di autodifesa contro il dubbio che può minacciare la fede in una futura società perfetta, giacché l’uomo è per sua essenza rivolto al futuro. Egli non può vivere se questo elemento di fondo del suo essere viene eliminato. A questo punto si colloca anche il problema della morte. L’ottimismo ideologico è un tentativo di dimenticare la morte con il continuo discorrere di una storia protesa alla società perfetta. Qui si dimentica di parlare di qualcosa di autentico e l’uomo viene colmato con una bugia; lo si vede sempre quando la morte stessa si avvicina. Invece la speranza della fede apre su un vero futuro oltre la morte, e solo così i veri progressi che ci sono diventano un futuro anche per noi, per me, per tutti”.
La preghiera è speranza in atto
E il card. Ratzinger conclude: “Un uomo disperato non prega più, perché non spera più; un uomo sicuro del suo potere e di se stesso non prega più, perché si affida soltanto a se stesso. Chi prega spera in una bontà e in un potere che vanno oltre le proprie possibilità. La preghiera è speranza in atto. Nella seconda parte del Padre nostro le nostre ansie e angosce giornaliere si convertono in speranza. E’ presente l’ansia per la nostra riuscita materiale, la pace con il nostro prossimo e infine la minaccia di tutte le minacce: il pericolo di perdere la fede, di cadere nell’abbandono di Dio, di non poter più percepire Dio e di finire così nel vuoto assoluto, esposti a tutti i mali. Nel momento in cui queste mie ansie diventano invocazioni, si apre la strada dai desideri e dalle speranze verso la speranza, dalla seconda parte alla prima del Padre nostro. Tutte le nostre angosce sono in ultima analisi paura per la perdita dell’amore e per la solitudine totale che ne consegue. Tutte le nostre speranze sono perciò nel profondo speranza del grande, illimitato amore: sono speranze del paradiso, il regno di Dio, dell’essere con Dio e come Dio, partecipi della sua natura (2 Pt 1,4). Tutte le nostre speranze sfociano nell’unica speranza: venga il Tuo regno, sia fatta la Tua volontà come in cielo così in terra. La terra diventi come il cielo, essa stessa deve diventare cielo. Nella Sua volontà sta tutta la nostra speranza. Imparare a pregare è imparare a sperare ed è perciò imparare a vivere”.