Il caso Welby e la libertà

La mia libertà comincia/finisce dove...
Autore:
Cavallari, Fabio
Fonte:
CulturaCattolica.it
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“Cosa ne pensi del caso Welby? Sei d’accordo, o contrario?”. La domanda è tronca, focalizzata su un nome, un’immagine divenuta di dominio pubblico. Il privato è pubblico dicevano una volta le femministe. Eppure io opporrei delle riserve. Voi mi interrogate su un’immagine privata e surrettiziamente mi inducete in un valore di giudizio universale. Non posso tuttavia rigettare la domanda, eludere un dato della realtà odierna. Nella risposta però è consentita la critica alla domanda, da qui posso partire. Da qui posso rigettare la cultura dominante di massa, la costruzione idilliaca di un bene e di un male dettati da una pietà buonista che non è pietà e da un concetto di libertà viziato dall’ossimoro del suo contrario. Eppure voi mi chiedete sinceri: “Cosa pensi del caso Welby?”. Abilità dei Radicali, di un pensiero comune fagocitato da un disegno debole e labile in grado tuttavia di reggersi con dinamica forza e spregiudicata sicumera. Il desiderio di libertà va soddisfatto, tutelato per legge. Siamo costretti a rispondere ma dobbiamo contestare la domanda. Per Welby rispetto pieno e consapevole. Impossibilità di giudizio per l’umano. E sul dolore, chiarezza e serietà. Nessuno può condividere il dolore, nessuno può capire o immaginare. Il dolore è la sensazione più intima e privata che appartiene all’uomo, noi non possiamo andar oltre. L’altro, come dice Monsignor Lorenzo Albacete può condividere la domanda. E’ questo l’atto d’amore che un uomo può rivolgere nei confronti di chi soffre. Condividere la domanda. Ma quella di Welby che domanda era? Una domanda di morte? E quella dei suoi amici radicali? In molti asseriscono che era una domanda laica. Pietro Barcellona, uomo non certo clericale (ordinario di filosofia del diritto all’università di Catania ed ex parlamentare Pci dell’epoca berlingueriana) sostiene che la laicità corrisponde al permanere il più a lungo possibile, nello spazio dell’interrogazione, rifiutando, il più a lungo possibile, la risposta che chiude l’interrogazione, la risposta che risolve. Lo spazio dell’interrogazione è raffigurato quindi come lo spazio stesso della laicità. E proprio l’interrogazione ha origine nel sacro. Il sacro secondo Barcellona costituisce il fondamento esistenziale del gruppo umano, ciò che non abbiamo a nostra disposizione, che non possiamo predeterminare, né calcolare, che non può essere posseduto e manipolato. Quando questo accade, ne va dell’ossatura antropologica dell’uomo. Ma qual era la domanda di Welby? E perché gli amici che gli stavano attorno non hanno colto la domanda ma ne hanno prodotta un’altra? Welby chiedeva di star bene, chiedeva di non soffrire. Qualcuno se ne è accorto? Ci ripetono che c’è un limite. E chi ce lo ricorda sono gli stessi soggetti che questo limite lo hanno ampiamente superato con i discorsi sulla fecondazione, le biotecnologie, sulle ipotesi autoriproduttive. Sempre Pietro Barcellona afferma che: “L’idea del limite è andata perduta, ed è un’idea essenziale perché, privi di limiti perdiamo il rapporto con le generazioni, perché stentiamo a formulare una responsabilità verso il futuro”. Ragioniamo di questa responsabilità nei confronti del futuro ma non facciamolo sull’onda emotiva ed emozionale di una rappresentazione del dolore. Rappresentazione ripeto. Perché il dolore non è coerentemente rappresentabile. Necessità di altro, di Altro. Pensiamo davvero che una legge possa sopperire a questo Altro? Che una norma di carattere generale soddisfi una richiesta di libertà? Soddisfi l’Uomo? Il diritto è indispensabile, la giurisprudenza, i commi e le Costituzioni sono i pilastri della convivenza civile. Ma non possono rappresentare il tutto. Il dolore è intimo e personale, le leggi sono universali e rispondono a domande di carattere generale. Come è possibile far coincidere le due cose se non attraverso una “giustizia” sommaria? E nessuno, lo sappiamo, neppure gli amici radicali, vogliono giustizia sommaria. Legiferare sulla morte implica produrre un’astrazione, significa concettualizzare sul vivente un protocollo che lo tramuti in “morente”. Il limite, ci dicono oggi è superare la decenza di una terapia che si accanisce, soddisfare la volontà di trapasso. Accanimento contro una malattia, accanimento contro l’uomo ammalato. Ci sono differenze sostanziali tra i due concetti. E allora se tutti siamo d’accordo che mantenere forzatamente in vita una persona oltre il suo naturale percorso è indecente, dovremmo avere anche il coraggio di dire che l’accanimento contro una malattia è sacrosanto. Qual è la soglia? Siamo davvero certi che una legge possa stabilirlo? Siamo così convinti che servano codici di legge che ci dicano quando, in quale caso e perché dobbiamo staccare la spina? Non è davvero più sano, per la medicina, per l’ammalato, per la politica, per tutti noi, ragionare nei termini individuali, specifici, attraverso l’ausilio dei medici che conoscono il particolare caso. Ma il problema forse è di tutt’altro tenore. Qui nessuno ci chiede di utilizzare la Ragione. Qui si vuole assecondare semplicemente l’idea moderna del concetto di libertà. Questo è il punto centrale. Questo è il tema di tutti i temi. Da qui tutto parte e sempre qui si arriva. Prima di chiedersi “ma Welby…”, “ma sulla fecondazione….”, “ma l’eutanasia…” bisogna ritornare a ragionare su cosa è la libertà. “La mia libertà inizia lì, dove inizia la tua” e non dove finisce. Partiamo da qui.