Eutanasia 2: La fine del soggetto. E' una soluzione accettabile?
Proponiamo queste acute riflessioni a partire dalla vicenda di Piergiorgio Welby, per poter giudicare quanto accade al di là di schemi, sentimentalismi o moralismi.- Autore:
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I Radicali, attraverso Welby e per Welby stesso, hanno chiesto che si provvedesse a legiferare razionalmente in favore dell’eutanasia. Essi hanno proposto uno schema. Per raggiungere un fine (il bene per l’ammalato) hanno ipotizzato di utilizzare un mezzo (l’eutanasia) che conducesse allo scopo. Il rapporto tra mezzi e fini è da sempre fondamentale e la riflessione attorno a questi concetti è stata ampiamente discussa nel corso della storia. In questa vicenda però ci ritroviamo a dovere far fronte ad una novità sostanziale. Ma andiamo con ordine ed esemplifichiamo alcuni casi che potremmo definire “limite”. Un soggetto che vuole vivere nel privilegio e nel lusso (il fine) decide di rubare (il mezzo) per raggiungere il suo scopo. Il socialismo reale per giungere alla liberazione dell’uomo senza catene (il fine) ha usato la soppressione degli avversari (il mezzo). Il criminale più irriducibile per divenire il capo indiscusso (il fine) appronta una faida (il mezzo) per giungere al suo obiettivo. In tutti questi esempi è evidente che per raggiungere un supposto fine superiore la moralità dei mezzi non ha mai avuto cittadinanza. Per questo motivo si afferma che il legame tra mezzi è fini è così stretto che se il mezzo contraddice il fine stesso, è lo stesso fine a perdere di valore. Moralmente ed eticamente un fine raggiunto con un mezzo incivile e malefico è socialmente inaccettato da chicchessia. In tutti questi esempi estremi però esiste una particolarità, anche quando il mezzo è malvagio, delirante, palesemente errato, il fine permane soggettivamente valido, non porta ad una sua negazione.
Che cosa succede invece con il ragionamento sull’eutanasia. Un caso assolutamente unico. Per raggiungere un fine (il bene per l’ammalato) si utilizza un mezzo (l’eutanasia) che conduce alla sua stessa negazione (la morte dell’individuo)
Se noi estrapoliamo questo concetto, adoperandoci in una operazione filosofica, scopriamo che non esistono altri casi, nei quali possiamo sovrapporre questa formula.
Non esiste caso (se non per il suicidio che però ha particolarità del tutto differenti e si rifà alle problematiche psicologiche dell’individuo e soprattutto è rinchiuso nell’alveo personale che nessuno mai penserebbe di estendere come pensiero logico), nei quali per raggiungere un fine si utilizza un mezzo che nega non solo il fine ma il soggetto stesso che ricerca il fine.
Non esistono altri casi nei quali in occidente è possibile sovrapporre questa proporzione filosofica. Non uno. Antropologicamente non siamo in grado di produrre una siffatta logica di pensiero.
Tutti coloro che, in assoluta buona fede, hanno emozionalmente (non affettivamente) giudicato possibile l’introduzione dell’eutanasia hanno legittimato questo tipo di pensiero. Si è trattato ovviamente di una legittimazione inconscia proprio perché estrapolata da una condizione di subordinazione culturale e (in qualche modo) emozionalmente ipnotica.
Se noi ci pensiamo possiamo trovare solo un caso al quale possiamo sovrapporre la proporzione citata: il kamikaze islamico. Per un fine superiore (le 72 vergini nel paradiso di Allah) egli utilizza un mezzo, che non solo uccide altre persone, ma nega se stesso. Paradossalmente è proprio questo lo scatto che l’occidente non riesce, in nessun modo a comprendere, del terrore islamico. Ed è da questa assoluta incomprensione che nascono poi gli errori di interpretazione (es. “i kamikaze agiscono perché appartengono ad un popolo oppresso, si fanno saltare perché la situazione palestinesi è intollerabile” etc.) e. In pratica, nell’impossibilità di comprendere proprio quella proporzione che citavo, si cercano di affibbiare a quelle situazioni le categorie mentali dell’occidente (l’oppresso che si ribella) per dare una spiegazione a ciò che non appartiene alla nostra logica mentale, alle nostre categorie di pensiero.
Ora io non voglio assolutamente paragonare o mettere sullo stesso piano le due questioni che tra loro non hanno alcun punto di contatto. Quello che sto cercando di comparare è la prassi logica di quel concetto estrapolata filosoficamente dall’oggetto in questione.
I Radicali potrebbero obiettare che loro pensano all’eutanasia per quei casi in cui la vita non è più vita e che quindi non esiste alcuna negazione del soggetto perché quel soggetto non è già più un “vivente”. Difesa che diventa essa stessa ammissione di quanto sto andando sostenendo, dal momento che il giudizio sulla “vita non più vita” sarebbe stabilito attraverso una legge generalista, schematica e che si basa su limiti oggettivi e che quindi risponderebbe a quella proporzione che ho esposto proprio perché sistematizzerebbe quel concetto.
“La non più vita” se mai si potesse disquisire in tal maniera, può essere stabilita solo ed esclusivamente dal rapporto con il medico che conosce il caso specifico, le particolarità della malattia, il decorso ed il protocollo medico. Solo il rapporto mediato dal medico con la persona può condurre ad una valutazione sul reale stato del paziente. Solo in questo caso, allora diventa valido il giudizio su quanto è accanimento terapeutico e quanto invece dovere di cura. L’eutanasia per legge invece non fa altro che legittimare quell’espressione concettuale che fa si che per giungere ad un fine si adotti un mezzo che in realtà nega non solo il fine ma il soggetto stesso.