Quel deficit spaventoso di realismo

Autore:
Colombo, Roberto
Fonte:
Avvenire
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All’Angelus domenicale in piazza San Pietro, Giovanni Paolo II è ritornato l’altro ieri sulla questione dell’inizio della vita umana individuale. E l’ha fatto parlando di “rinnovato stupore” verso ciò che la stessa ragione e la scienza non temono di chiamare “mistero” e invitando a riconoscere, anche sul piano giuridico, quanto “la scienza ha ormai dimostrato”: l’embrione è “un individuo umano che possiede fin dalla fecondazione la propria identità”. Affermazioni limpide e ragionevoli che non hanno mancato di suscitare - come in altre circostanze - reazioni confuse e istintive, che evocano lo spettro di presunti conflitti tra fede e scienza, tra insegnamento della Chiesa e argomentazioni di ragione, tra moralità privata ed etica pubblica. La “cultura del sospetto” prende sistematicamente le distanze da ogni parola detta con una autorevolezza che si impone per il solo motivo della sua inesorabile evidenza. E gli amanti e propagatori di questa cultura amano insinuare il dubbio che quando - per esempio - la Chiesa si appella alla scienza lo fa per ignoranza o per strumentalizzazione ideologica. Per ignoranza, in quanto la “nuova scienza” (nel caso in questione, la biologia dello sviluppo, l’embriologia e l’ostetricia contemporanea) sarebbe sconosciuta al magistero. Per strumentalizzazione ideologica, volendo “piegare” la realtà (per esempio, il processo di formazione e di sviluppo della vita prenatale) al fine di una giustificazione dell’insegnamento morale della Chiesa. Se così fosse, l’uomo di ragione (ma si dovrebbe dire semplicemente l’uomo, perché la ragione è dimensione costitutiva dell’esser uomo) giustamente si ribellerebbe, e ancor più l’uomo di scienza, non trovandosi un uso della scienza maggiormente abietto e pericoloso di quello operato da una ideologia “scientifica” (i regimi totalitari del XX secolo vi hanno fatto ampio ricorso). Per non parlare dell’uomo di fede, essendo il rapporto col mistero di Dio definito attraverso il nesso con il reale, e perciò il vertice dell’espressione ragionevole dell’uomo. La dimensione religiosa della vita coincide con la dimensione razionale nel suo vertice di apertura alla realtà.
Al contrario, l’affermazione che l’embrione è un individuo umano a pieno titolo, cioè uno di noi, corrisponde alla realtà dell’inizio e dello sviluppo di un organismo umano così come è documentata dalla indagine biologica iniziata oltre un secolo fa e recentemente arricchita di nuove e affascinanti prove dalla genetica e dalla embriologia molecolare. Non è questa la sede per riassumere tali conquiste della ragione scientifica. Uno per tutti, ascoltiamo un indiscusso maestro della biologia dello sviluppo contemporanea, Scott F. Gilbert, che nell’ultima edizione (2000) di un trattato adottato come testo nelle più prestigiose università anglosassoni e tradotto in diverse lingue europee così si esprime: “La fecondazione è il processo mediante il quale due cellule sessuali (i gameti) si fondono insieme per creare un nuovo individuo con un corredo genetico derivato da entrambe i genitori”. Questa affermazione riflette un dato ormai consegnato al patrimonio delle evidenze della moderna scienza biologica, che si ritrova espresso in molti altri autorevoli e recenti testi. Nessun docente che fondi la propria conoscenza sul realismo e sulla ragione intesa come apertura alla realtà si sentirebbe autorizzato ad insegnare diversamente circa l’inizio della vita individuale senza doversi confrontare lealmente con un numero di osservazioni sperimentali, mai sinora falsificate, che impressiona per la sua ricchezza e consistenza interna.
Come potrebbe colui che oggi siede sulla cattedra di Pietro assumere per il proprio magistero sulla vita umana, la sua dignità ed il rispetto ad essa dovuto, un punto di partenza biologico diverso da quello espresso dal consenso degli studiosi più accreditati? La questione embrionale non è una questione di fede, ma di ragione. La prima non può sostituirsi alla seconda nel cogliere la realtà dell’origine e dello sviluppo dell’organismo umano, ma conduce il credente a riconoscere ad ogni individuo umano, sin dal suo costituirsi come tale, l’altissima dignità che gli deriva in quanto creato a “Sua immagine e somiglianza” e chiamato alla partecipazione alla vita stessa di Dio in Cristo. La fede rende possibile riconoscere in ogni presenza umana, per quanto piccola e fragile, un segno della Presenza divina, rispondendo così alla domanda del salmista evocata dal Papa - “Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi, il figlio dell’uomo perché te ne curi?” (Sal. 8,5) - e che sgorga dall’esperienza elementare di ciascuno di noi.
Non possiamo però dimenticare l’incidenza della moralità nella dinamica della conoscenza, anche di quella scientifica. Tale considerazione spiega la difficoltà di molti ad ammettere senza reticenze quanto l’osservazione e la ragione mostrano palesemente. Le obiezioni all’identità o all’individualità dell’embrione umano, quando non sono il frutto di un irriducibile “pre-concetto” che costringe la realtà entro uno schema intellettuale, nascondono una predilezione dell’utile rispetto al vero, che giunge fino a negare ciò che è evidente non solo agli occhi dello scienziato, ma anche a quelli di ogni uomo che rifletta seriamente sulla propria esperienza. La prima e fondamentale forma di moralità è onorare e amare la realtà più che l’idea che di essa ci siamo fatti e più del progetto che su di essa abbiamo costruito.