L'embrione: un paziente speciale

Autore:
Anzani, Giuseppe
Fonte:
Avvenire
Vai a "Embrione"



Ciò che la scienza riesce a vedere, e a farci vedere, dei primissimi stadi della vita umana, ha del prodigioso. E' una serie continua di traguardi della conoscenza, che va rivelando sotto i nostri occhi l'immagine della vita nascente: di ciò che ognuno di noi è stato, offrendoci l'emozione di risalire il tempo e di guardare il miracolo, su fino al giorno in cui il miracolo del nostro approdo alla frontiera dell'essere si è compiuto.

Ma abbiamo occhi puliti, per vedere? Ciascuno di noi sa di essere unico, diverso da ogni altro uomo. E sa che ogni altro uomo, diverso, è unico. Ora la scienza ci fa vedere che questa unicità inconfondibile principia dalla scintilla stessa della vita, e non muta identità. Quello che noi siamo, noi siamo dall'inizio alla fine, nel trascolorare delle stagioni del tempo che ci è dato da vivere, dal primo sviluppo alla crescita, alla maturità, alla senescenza e al tramonto. Ma ri-conoscere questa verità, che pure si radica nella più profonda e persino istintiva certezza dell'essere (perché mai il mio "esserci" può nel tempo consistere in altro se non nella mia tautologica identità) sembra a volte il terreno offuscato da torbidi occhiali, se affiorano lambiccati "distinguo" sul primo stadio della vita embrionale.

Si può anche intuire il perché di questi costruiti problemi: su quel miracolo della vita vi sono mani protese. Come un segreto svelato, come una scintilla rubata alla natura, la vita si fa accendere nella provetta dei laboratori: perché abbia vita, a volte, e si sviluppi poi umanamente in un grembo; ma anche, a volte, perché sia congelata, e tenuta in serbo come materia di studio, di sperimentazione, di utilizzo a perdere, guadagnando il prodigio di saccheggiarne le preziose cellule staminali. Di fronte al brivido di una violazione dell'essere umano, qualcuno va dicendo allora che l'essere umano non c'è, che ci sono giorni di franchigia per possedere quel primo indifferente substrato biologico, quel grumo cellulare, quella "cosa"; e para così le mani davanti all'interpello perentorio del diritto, che per natura vuol protetto l'essere umano da ogni manomissione.

Ma già nel Comitato Warnock, quello dei famosi "14 giorni" era venuta a galla questa mistificazione, quando si era chiarito in limine che la fittizia frontiera non riguardava la presenza o l'assenza di un essere umano, ma il limite proposto alla "tutela giuridica" di quell'essere; quasi a scongiurare uno sfondamento maggiore da parte di sregolate e incommensurate prassi. Oggi, ciò che ci fa vedere ancora di più la scienza ci aiuta a capire il quesito essenziale, oltre ogni lambicco di vetro o di sofisma: ci aiuta a capire il "chi è" dell'embrione, nel momento stesso che ce lo fa vedere. Nella Dichiarazione dei Docenti delle 5 facoltà di Medicina e Chirurgia delle università di Roma, promotori del Convegno sul tema "L'Embrione come paziente" svoltosi presso l'Università di Roma "La Sapienza", sono state rese pubbliche le ultime scoperte sulla vita embrionale. Ciò che impressiona è lo stupendo finalismo della natura, che da artista disegna la vita da un progetto di assoluta unicità. Nella vita non c'è doppio, ogni volta è un capolavoro irripetibile. E il pennello di questo capolavoro ce l'ha l'embrione; è da lui che genera la cascata infinita di segnali, trasmessi da cellula a cellula, e dentro e fuori dell'ambiente cellulare; segno che "c'è qualcuno" lì che dipinge se stesso, che c'è una rigorosa unità dell'essere in costante sviluppo nel tempo e nello spazio. Il ciclo vitale procede nel disegno della "continuità": noi possiamo percepirne le transizioni, con lo stupore del progredire del miracolo, nel mentre l'opera d'arte riempie man mano il suo spazio progettuale, e capire che non c'è mai interruzione; e che anzi la gradualità dell'evento rivela che esiste un provvido solco, determinato intrinsecamente per la riuscita di ciascun capolavoro "inventato". E se un giorno ci fosse dato di tornare a riflettere, nella nostra vita di adulti, sul rapporto tra finalismo e determinismo, tra creatività e regola sapienziale, tra libertà e verità e bellezza, la contemplazione di ciò che accade nella vita nascente ci darebbe più di una pista per riparare in un porto di gioia gli enigmi delle nostre angosce, dei nostri dubbiosi smarrimenti di adulti. Ma il Convegno di Roma si è dedicato a un tema più specifico, all'embrione "malato". La sollecitudine per lui, per la sua salute, per la salute del più piccolo di noi, non chiede commento, in termini di deontologia medica. Se non, però, per il confronto delle scoperte rivelate con l'ombra che resta sullo sfondo del costume, quando ci si affaccia per contrasto l'immagine antica dell'embrione come appendice (portio viscerum) della madre, e una visione della salute della "maternità" come terreno di conflitto tra la nuova vita colpita da malattia, e la salute fisica e psichica della madre che vuole un figlio sano. Desiderio umanissimo, che però sfida la medicina non già a consegnare alla madre la disperazione di sopprimere il figlio per ragioni "terapeutiche" o eugenetiche (e qui qualche soprassalto ci scuote, se una deriva giurisprudenziale va formulando teoremi assurdi sul "diritto a non nascere"), ma a raffinare le tecniche, in prodigiosa evoluzione, di intervento terapeutico sul bambino in gestazione: registrando frattanto che c'è una straordinaria risposta fetale agli approcci farmacologici e agli interventi ecoguidati capaci di risolvere anche patologie gravi. E si affacciano traguardi possibili per le future terapie geniche offerte alla vita prenatale.

Questo sforzo della medicina a servizio della vita umana nello stadio embrionale è in sè benedetto in nome della vita. Fra tante notizie di morte che riempiono le nostre cronache quotidiane, questa sollecitudine verso il bocciolo della vita, da cui tutti noi siamo passati, e che resta il futuro del mondo, è una buona notizia. La Giornata per la Vita, che oggi si celebra in tutta Italia, può attingerne gioia e riconoscenza.