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Una donna di sinistra dice sì alla moratoria

Autore:
Turroni, Paola
Fonte:
CulturaCattolica.it
Riportiamo questo intervento di Paola Turroni, nostra amica e collaboratrice, per un utile approfondimento della questione aborto. In nome della ragione.

C’è qualcosa che stona nelle donne che erano in piazza ieri. Lo dico con rispetto, e con timorosa determinazione. Non è un controsenso, servirebbe ovunque un po’ di timorosa determinazione. Vale a dire coraggio delle proprie idee, ma anche un minimo di umiltà, un minimo di domanda, di dubbio, di sospensione. Voglio fare una premessa, per dovere di cronaca, sono una donna di sinistra, non ho figli e non ho abortito, mi occupo di minori. Sono riconoscente alla storia del femminismo, alle lotte fatte, alle rivendicazioni necessarie a fare luce nel buio della sottomissione e della privazione. So che molto di quello che posso fare oggi lo devo a loro, oltre che a mia madre. Ma proprio in nome di quella severità, di quella determinazione, io oggi devo essere critica e tenere alto il livello della domanda. “L’aborto, in cui non ci riesce davvero di scorgere alcuna affermazione della libertà della donna (…) combattere la clandestinità dell’aborto e al tempo stesso non favorirne l’estensione come mezzo di controllo delle nascite (…) non è crescita di civiltà ma piaga sociale che in quanto tale non va estesa ma ridotta”. ADRIANA SERONI, membro del Pci (La questione femminile in Italia, 1970-1977)
Ecco, questo è il punto in cui eravamo rimaste. Così io tremo quando sento dire, nel febbraio del 2008, “io sono mia” oppure “il diritto dell’aborto”. Loro sono lì, in piazza, vero - io, per giustificare, ero in comunità coi miei ragazzi. Loro sono lì e io sento una distanza enorme. Girano intorno al problema senza sradicarlo, questo è un modo inutile, auto celebrativo, di dire le cose. Non è vero che siamo di noi stessi, donne o uomini che siamo. Abbiamo la responsabilità di noi stessi, che è un modo un po’ più dignitoso di stare al mondo. Noi siamo relazione, è attraverso i legami che ci definiamo, non è vero che decidiamo per noi senza nessuna conseguenza che per noi, ogni gesto che facciamo ha un riscontro nella nostra vita e in quella degli altri, continuamente. È questa la meravigliosa difficoltà dell’essere donne e uomini. È un obbligo civile e morale costruire una società che metta la donna in gravidanza in condizione di non decidere da sola, di non essere sola a livello umano, psicologico, economico anche. Quando si dice “è sulla donna che pesa la decisione di abortire” si conclude “è la donna che deve decidere”. Mi pare la denuncia di una condizione terribile, non la conferma di un diritto. Quando si dice “è sulla donna che pesa la decisione di abortire” bisognerebbe concludere “facciamo in modo che non sia solo sulla donna”. Perché mi pare evidente che l’aborto sia un peso, che sia doloroso, un’agonia che la donna sopporta tutta la vita. Perché non urlare questo, non lottare per sconfiggere questo, perché non chiedere ragione e leggi per questo?
Sono d’accordo che l’irruzione della polizia, come ogni irruzione di polizia, sia stata stupida, volgare, inutilmente persecutoria. Mi unisco dunque a questa parte della protesta, perché il gesto volutamente teatrale non fa che abbassare il livello del confronto e dell’analisi. L’aborto è una condanna, non un diritto. L’aborto è una ferita che ogni donna vorrebbe evitare di affrontare. Allora è per questo che bisogna lottare. Costruire una legge che metta le donne in una condizione sempre più remota di abortire, rendere davvero funzionali i consultori, chiedere una seria analisi delle cause e delle condizioni che portano ad abortire. “Il primo motivo per cui si decide di abortire è quello economico (…) sono le più povere, le meno istruite e le meno protette a voler interrompere la gravidanza (…) Oltre la metà delle donne che decidono di non proseguire la gravidanza sono in quel momento sole (…) quanto è determinante anche l’assenza di un rapporto affettivo stabile, la mancanza del sostegno del padre? (…) Forse anche il femminismo, con la sua giusta insistenza sulla autodeterminazione, ha paradossalmente impedito la consapevolezza di altre responsabilità. Così la solitudine delle donne di fronte a una gravidanza indesiderata rimane grande”. RITANNA ARMENI “La colpa delle donne” 2006.
Oggi dunque, febbraio 2008, la grande maggioranza degli aborti, sono dovuti alle condizioni economiche. Ragioni economiche non intese soltanto dal punto di vista della sussistenza, ma anche di appartenenza a un modello di vita, con la complessità emotiva e relazionale che ne consegue. Economia dunque in senso lato, quotidiano e progettuale, di pratica di scambio. Non è dunque su questo che bisogna farsi le domande e rivendicare ascolto? In sostanza, viviamo ancora in un sistema economico e sociale che non protegge la donna e la nascita della vita, a prescindere. Qual è il ruolo del femminismo allora? Dobbiamo intervenire sulla forza delle relazioni, sulla condizione del lavoro, sullo stato sociale. “Ora che abbiamo tolto l’aborto dalla clandestinità ci dobbiamo impegnare affinché le donne non si ritrovino nelle condizioni di abortire”. ENRICO BERLINGUER, 1981
Non dobbiamo tornare indietro, non dobbiamo tornare alla clandestinità, vero. Ma è vero anche che dobbiamo andare avanti. Togliere l’aborto dalla clandestinità è il punto di partenza, non il punto di arrivo. Per questo sento qualcosa che stona in quelle donne in piazza, vorrei sentirle parlare di vita, di rivendicazioni progettuali, di sapienza storica invece che vuota celebrazione. Dal femminismo abbiamo ereditato il dovere di portare avanti la nostra differenza di genere per leggere la realtà e chiederne conto, puntando a un obiettivo che ci liberi anche dalla sofferenza dell’aborto.

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