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Schizofrenia abortista

Autore:
Cavallari, Fabio

Siamo un paese senza memoria storica, paradossale, per certi versi schizofrenico. Sino a qualche mese fa, il fronte politico progressista ha eretto la 194 a monumento istituzionale. Vietato criticare. Chi ha preteso una verifica sull’attuazione di quella legge è stato accusato di voler far indietreggiare le lancette del tempo. “Si vuole ritornare al medioevo”, “l’utero è mio e me lo gestisco io”, sono gli slogan riproposti dal vecchio movimento femminista che per l’occasione ha tentato una “rievocazione” collettiva nella piazza milanese. Trascorso qualche mese il tema dell’aborto è tornato a scandire i ritmi della politica. L’introduzione della pillola abortiva Ru486 è stata richiesta a gran voce, per la verità soprattutto dai medici, in virtù di una supposta “liberazione” della donna. Niente più ricoveri ospedalieri, niente più interventi chirurgici. I fan della kill-pill discutono esplicitamente di apertura al “privato” e qualche “luminare” si azzarda ad ipotizzare aborti domestici. In sintesi una clamorosa e palese violazione della 194. Un vero e proprio ribaltamento di campo. Chi sino a ieri ha preteso l’inviolabilità della legge, oggi chiede di modificarla a suo uso e consumo. In pratica siamo tornati a discutere dell’aborto come “diritto” positivo. Una discussione che negli anni ’70-’77 aveva visto contrapporsi, nelle concitate assemblee dell’epoca, femministe (comuniste e anche cattoliche) e Radicali. Adriana Seroni (parlamentare del P.C.I.) era instancabile nell’ammonire che il ricorso all’aborto non poteva essere letto come un’affermazione di libertà per la donna, ma al contrario come il prezzo pesante che le donne erano chiamate a pagare a causa della deresponsabilizzazione del partner e della insufficiente tutela offerta alla maternità dalle nostre istituzioni. Nel 1976 sul n° 39 di Rinascita scriveva testualmente: “La legge (194) in sé non basta a risolvere i problemi enormi posti dall’aborto. D’altro canto, se non è chiaro che c’è un dopo, che c’è un oltre la legge sull’aborto; se sfugge progressivamente ogni rapporto con il sociale perché lì può sempre annidarsi una limitazione della libertà della donna, dove si arriva a finire? No alle strutture sanitarie perché inadeguate ed insufficienti; no ai medici perché autoritari; no alle istituzioni perché repressive, no ad ogni limite temporale indicato all’aborto perché riduttivo della libertà. Così facendo si innesca un processo di idee il cui sfocio non può essere che il self help, l’aborto autogestito, praticabile fino a 22 settimane, realizzabile senza alcuna effettiva garanzia sul terreno sanitario.” Adriana Seroni non poteva sapere che quel self hel oggi ha un nome, Ru486, e neppure che a fronteggiare contro l’aborto domestico non c’è più nessun compagno. In nome della “libertà” oggi il fronte progressista non ha più nulla da eccepire. Hanno vinto i radicali. Luisa Muraro (filosofa della differenza sessuale) ha recentemente puntualizzato che “è un errore confondere la battaglia impostata dai radicali (fra i quali spiccava Emma Bonino) per il diritto d’aborto, con il movimento femminista, che non aveva questa impostazione individualistica e liberistica”. Peccato che di quest’ultimo sembra non essere rimasta traccia.

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