"Memorie di un soldato bambino" 7 - L'incontro con Esther
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La terza parte. L’UNICEF
La terza parte del libro inizia con la descrizione del faticoso cammino di Ishmael per risalire fisicamente e psicologicamente il baratro delle droghe, degli incubi notturni, delle emicranie implacabili, del tremolio alle mani per astinenza da droghe, del ricordo degli occhi delle vittime, ragazzi come lui, della distruzione di letti, armadietti, panche e piatti, della ribellione violenta ad ogni forma di aiuto.
Trasportati in un centro della capitale della Sierra Leone succede il caos: i ragazzi non capendo perché siano stati ceduti e costretti a lasciare il campo, feriscono il personale del centro con granate e baionette, si scontrano armi in pugno con altri ragazzi arruolati dai ribelli, e si feriscono a morte. Sei ragazzi muoiono accoltellati, non si contano i feriti gravi. Si sentono di nuovo in guerra, orgogliosi di essere considerati pericolosi e programmati per uccidere.
Divisi a forza dai poliziotti, a sirene spiegate, Ishmael e pochi altri, sanguinanti, vengono trasferiti al Centro di riabilitazione di Benin Home, per essere medicati e curati.
Ma dopo questo trasferimento le cose non migliorano: i ragazzi ospitati sono violenti e si procurano ferite picchiandosi fra loro e distruggendo mobili, letti e finestre.
Anche Ishmael una mattina sfonda i vetri della sua classe con i pugni e viene ricoverato in ospedale, dove un’infermiera pazientemente gli toglie dalla pelle le schegge di vetro, parlandogli con calma e delicatezza, preoccupandosi di non fargli troppo male e cercando un contatto con il ragazzino ribelle.
E’ Esther, e sarà la sua presenza discreta e affettuosa a iniziare a togliere il gelo dal cuore di Ishmael.
Questi si lascerà avvicinare a fatica, fuggendo all’inizio ogni contatto e dialogo, ma giorno dopo giorno, arriverà a non rifiutarla, ad ascoltare le sue domande, ad aspettare il momento dei colloqui con lei, ad accettare di essere aiutato.
Questo semplice ma miracoloso incontro con una persona capace di curarlo e amarlo muterà definitivamente il corso della vita del protagonista.
Dopo qualche tempo le autorità del Centro permettono a lui e ai suoi amici di andare in città, solo però a condizione che frequentino ordinatamente e continuativamente le lezioni.
E Ishmael accetta di stare alle regole, ritrova le materie di un tempo lontano, apre i libri, studia matematica, storia, inglese, pur di sentirsi libero per qualche ora.
Un mattino egli sente il bisogno di andare a vedere in ospedale Esther, senza un motivo preciso e di raccontarle la sua storia. E così riaffiorano alla mente gli accampamenti nella foresta, l’ordine di partire, la marijuana da assumere e la cocaina tagliata con polvere da sparo, le urla dei soldati, l’ invasione dei villaggi, le barbare carneficine, le gambe dei nemici infilzate con le baionette, gli occhi vuoti delle vittime, l’odore dei prigionieri bruciati, i gemiti dei sepolti vivi, l’inseguimento implacabile dei fuggitivi.
Quando finii di raccontare la mia storia, Esther aveva le lacrime agli occhi e sembrava indecisa se farmi una carezza o abbracciarmi. Alla fine non fece né una cosa né l’altra, ma disse: "Niente di ciò che ti è successo è colpa tua. Eri soltanto un ragazzino. Ogni volta che vorrai parlare sarò qui ad ascoltarti”. Mi fissò cercando il mio sguardo per dare conferma alle sue parole. Ero arrabbiato, pentito di aver descritto a qualcuno, a un civile, la mia esperienza. Odiavo quel “Non è colpa tua” che tutti i membri dello staff pronunciavano ogni volta che qualcuno parlava della guerra.
Inaspettato gli arriva come regalo da Esther un walkman con alcune cassette rap, e Ishmael impazzisce di gioia e la abbraccia, anche se subito dopo si ritrae vergognandosi.
Vediamo che nel racconto questa figura materna acquista uno spazio sempre più ampio nel cuore del protagonista e i suoi sogni invasi da nemici, volti sanguinanti, arti fatti a pezzi e spietate uccisioni terminano con la comparsa dapprima timida poi sempre più chiara, dei ricordi della sua vita passata al villaggio, dei volti della sua famiglia, del fratello, del padre e della madre.
Gli psicologi dicono che in una situazione come quella descritta nel libro, comune a tanti bambini e ragazzi costretti a subire e compiere efferate violenze, quando nel sogno ricompaiono le immagini dell’infanzia, i legami affettivi, la vita serena di un tempo e soprattutto il volto della mamma sorridente, questo è il segno che si sta svolgendo un processo di riappropriazione profonda del proprio io, della propria appartenenza ad una storia e ad un ceppo famigliare e che le ferite traumatiche possono lentamente iniziare ad essere affrontate e curate e, col tempo, rimarginate.
Ciò è possibile però solo se nella circostanza si è verificata un’ intermediazione, cioè un incontro con una persona, in questo caso con la figura femminile e materna di Esther, che si affianchi al bambino e all’adolescente ferito nel cuore e nella psiche, che, con il suo amore, quasi nuovo alveo di gestazione, gli ridia il coraggio di guardare dentro di sé e lo riporti alla vita.
Anche da adulti certi incontri possono avere questa forza salvifica quando aiutano ad affrontare i traumi vissuti e a ridare alla vita senso e speranza.
Esther non ha smesso nel frattempo di cercare i famigliari di Ishmael, ma l’unico parente che rintraccia è uno zio dal quale quest'ultimo va ad abitare, superando il dolore di dover lasciare gli amici e la sua amica-sorella.