Antonia Arslan, Il Libro di Mush
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Antonia Arslan, scrittrice e saggista italiana di origine armena, già professore di Letteratura italiana moderna e contemporanea all'Università di Padova, nel 2004 ha scritto La masseria delle allodole (Rizzoli), che ha fatto conoscere al mondo la tragedia del popolo armeno. Da lì in poi l’impegno a continuare a svelare la verità che spesso gli storici ignorano o mistificano; qualche mese fa ha pubblicato un piccolo libro che parla di un grande libro: non si tratta di un gioco di parole; l’ultima testimonianza di Antonia Arslan è racchiusa in poco più di cento pagine che raccontano la storia del libro sacro per gli Armeni, il sacro Omiliario di Mush.
Il libro di Mush esiste davvero. Si trova nella biblioteca Matenadaran, l’archivio di Yerevan, capitale della Repubblica d’Armenia; è un manoscritto medievale del 1202 (alto circa un metro, pesante ventisette chili e mezzo) che ha avuto una storia avventurosa. È stato ordinato da un mercante, che poi lo ha venduto; è rimasto per molti anni nel Monastero dei Santi Apostoli della valle di Mush. L’alta valle di Mush, ricca di acque e circondata da montagne impervie, è, nel 1915, invasa dai turchi, che uccidono centomila armeni, uomini, donne e bambini senza eccezione. Nel 1917 due donne, tra le poche sopravvissute al massacro, trovano il libro tra le rovine del tempio.
La storia, raccontata dalla Arslan, è condita da eventi leggendari e romanzeschi, ma ha un solido nucleo storico: è il racconto di come questo libro sia stato salvato dalla follia omicida di coloro che hanno annientato il popolo armeno. Nel 1915 la guerra che insanguina l’Europa è lontana ma si sta avvicinando: i russi avanzano, i turchi arretrano, ma sono determinati allo sterminio. Qui nella valle del Daron, ricca di chiese e villaggi, la città principale si chiama Mush: un altopiano, dove la civiltà armena è nata mille e settecento anni fa, dove l’antico monastero dei santi Apostoli conserva le reliquie dei primi apostoli. Due donne si attardano a bagnarsi nel fiume che scorre ai margini del villaggio tra i boschi; ad un certo momento, nel cuore del pomeriggio, sentono un rumore che si avvicina: sono cavalli al galoppo e dietro ad essi una parte della terza armata ottomana reduce dallo scontro con i russi sul Caucaso. È la strage: il paese non c’è più, bruciati gli uomini e le cose. Col buio della notte si inoltrano tra le case: la notte è intrisa dell’odore del sangue. In alto il fuoco, il monastero brucia. Anoush, una delle due donne, resta sola, i figli e il marito massacrati; Kohar, l’altra donna, trova fortunosamente nascosto sotto una carriola rovesciata, un bambino, Hovsep, l’unico superstite del villaggio. Comincia così la loro fuga disperata; alle giovani armene si aggregano due greci; il quintetto raggiungerà il monastero di Mush. Ma inutile cercare rifugio: anche qui l’orda turca ha lasciato morte e distruzione. Solo un libro si è salvato, un prezioso manoscritto medievale. Inizia il viaggio verso la salvezza per loro e per il libro, unica testimonianza di una tradizione che non può morire.
Con la consueta affascinante scrittura la Arslan ci consegna un romanzo che tocca la profondità dell’animo di chi lo legge: se in un luogo in cui si è vissuto in pace con la propria famiglia, i figli, i genitori, i vicini, si abbatte un uragano di violenza, come si può sopravvivere? Quale coraggio, forza d’animo, certezza nella vita spinge i cinque fuggiaschi? Il libro mostra come il male sia un vincitore terribile, ma solo apparente di fronte a chi si affida agli Angeli. Il lettore paziente – conclude graziosamente la scrittrice - accolga la storia narrata ‘come un frutto d’Armenia, un melograno invernale o una dolce albicocca, e la gusti come si gustano le fiabe d’Armenia nelle notti d’inverno intorno al focolare’.
Immagine di Chiara Ciceri