Interstellar 2 - Tra domande sul destino e limiti dello scientismo

Autore:
Parenti, Stefano
Fonte:
CulturaCattolica.it
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Gli elementi che, tra i molti, mi sembrano i più centrali, sono stati esposti. Proviamo ora a ricomporli in un quadro d’insieme. Interstellar sembra mettere in scena il dramma umano per eccellenza: il tema del rapporto col destino. Parlare di destino significa declinare la parola felicità. Come si può essere felici senza poter esplorare le stelle, si chiede Cooper? Semplice, rispondono gli eventi, ritornando a volare nello spazio, ovvero abbattendo i limiti preesistenti. La risposta, però, scontenta non solo lo spettatore cristiano, al quale la memoria di due ben note trasgressioni, come quella di Lucifero e di Eva, evoca brividi spaventosi; ma anche lo spettatore fedele alla ragione naturale. Cooper starà senza dubbio portando a compimento le sue aspirazioni lavorative ed artistiche, ma altrettanto sicuramente sta trascurando la paternità, sottoponendo i suoi figli ad un egoismo insensato. Il buon padre di famiglia, probabilmente, avrebbe pensato: “Questa missione è davvero bella ed importante, ma sono sicuro che potrà pilotarla anche qualcun altro”. Avrebbe, cioè, ascoltato una parte di sé che, Cooper, invece, rimuove, dandocene testimonianza con la sua perdurante sofferenza. Potremmo qui ricordarci il monito di Gesù: “Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero [l’universo intero] se poi perde se stesso?”. Una vita costruita su di un egoismo non può condurre alla soddisfazione, ovvero alla felicità. Mi sembra che non sia una casualità se, uno dei personaggi secondari, ovvero il Professor Brand, capo della missione, edifichi il suo piano su di una menzogna che inganna i protagonisti. Ma è nel dialogo struggente alla fine del film (di cui non si rivelerà più del necessario) in cui scopriamo che, dopo tutta la fatica compiuta, Cooper non sa che cosa fare, ovvero non ha risolto il problema di partenza, quello del destino, quello del suo posto nel mondo e nella storia. Ha assecondato l’istinto, mosso dal desiderio di felicità ed animato dalle immagini di come giungere a tale felicità, ma si ritrova daccapo: “Che devo fare?”. Sarà sua figlia a rispondergli (proprio colei che è rimasta fedele al desiderio senza immagini precostituite), quasi a dire che di tutta quella vicenda Cooper non ha compreso niente. Può aver guadagnato il mondo, Gargantua, l’universo…ma decisamente non ha trovato se stesso.
In questo passaggio mi pare si possa ricondurre il tema del film. Di fronte alla sproporzione tra il desiderio umano di conoscenza, di verità e, quindi, di pace, ed i limiti della realtà, Interstellar suggerisce di trovare risposta nella scienza. La realtà delude, quindi, grazie alla scienza, si può cambiare la realtà. Poco importa se dentro la realtà vi sono misteri che destano curiosità (come i segnali-simboli di cui si interessa Murphy e che Cooper scantona) o affetti che richiedono una presenza (come Tom e Murphy) perché ogni cosa deve essere sottomessa all’idea di poter cambiare tale realtà. Grazie alla scienza, ovviamente, o, meglio, alla tecnologia. Ma tutto questo, non l’avevamo già sentito? Non è qualcosa che riecheggia nella storia dell’umanità? Forse con termini filosofici potremmo chiamarlo “scientismo”: l’idea secondo cui i problemi ed i bisogni dell’uomo possono essere soddisfatti dalle scienze fisiche e sperimentali, ovvero dalle loro scoperte ed applicazioni. Non c’è bisogno di scomodare von Heyek, Popper o, come preferirei, san Tommaso d’Aquino ed il compianto Enrico Cantore per cogliere i limiti di tale prospettiva, ben noti al lettore di Future Shock. Ciò che ci interessa, invece, è riconoscere come la fantascienza si sia fatta portatrice, ancora una volta, di tale “falso mito di progresso”, per usare il sottotitolo del nuovo quotidiano La Croce. Mi ha sempre colpito constatare che lo scientismo, che ha le sue radici nella superbia umana e annovera predecessori di fama incontrastata come Kant e gli Illuministi francesi, abbia raggiunto la sua massima popolarità nella seconda metà dell’Ottocento, ovvero nel medesimo frangente storico in cui è nata la fantascienza. Il genere fantascientifico ha propagandato tale mentalità, di cui Interstellar ben incarna i contenuti. Il film inclina alla prospettiva scientista – la frase del professor Grant lo testimonia: “Dobbiamo arrivare molto al di là della nostra personale esistenza” – ma al contempo ne sottolinea la criticità. Sono passati due secoli dal 1800, due guerre mondiali e tanti altri fatti che, per fortuna, hanno quantomeno intorpidito la chiara luce del “progresso”. Il film lo testimonia, grazie a due episodi. Il primo, collocato all’inizio della vicenda, è uno scambio di battute tra Cooper e Murphy: “Scienza è ammettere ciò che non sappiamo”. Una bella frase, che però svela l’inganno del film: ciò che Cooper ignora, ciò che ogni altro personaggio ignora, che la modernità ancora ignora, nonostante duecento anni di progressi scientifici, è che cosa soddisfi l’uomo. Ovvero cosa gli dia pace e felicità. La domanda di sant’Agostino resta tutt’ora valida: quid animo satis? Il film si gioca su quest’equivoco: ciò che Cooper non sa non è come salvare la terra, ma come salvare se stesso. Interstellar sembra incapace di fornirne una risposta, traballando tra un sentimentalismo affettivo (“L'amore è l'unica cosa che trascende il tempo e lo spazio”) ed un ricorso poco chiaro alla sincronicità alchemica – ovvero il massimo grado della presunzione umana di controllo sulla realtà. Sempre sant’Agostino, invece, risponderebbe semplicemente: “Ci hai fatto inqueti, finché non dimoriamo in Te [Dio]”. Per poter abbracciare una posizione trascendente, bisogna però aprirsi al senso religioso. Ed è qui che giungiamo al secondo episodio significativo, che coincide con la chiave del mistero. Cooper si troverà nel finale in un luogo misterioso. Ovvero a contatto con una esistenza diversa dalla sua. Proprio come accade nel finale di 2001 Odissea nello spazio, a cui, giustamente, possiamo dire ora, Interstellar viene paragonato, quando il protagonista attraversa un tunnel spazio-temporale per giungere in una stanza “speciale”, se si può dir così. La considerazione di Cooper è di aver incontrato una realtà aliena, forse superiore, che gli ha permesso di compiere la missione, che lo ha aiutato, che gli ha fatto ottenere, finalmente, l’esito ricercato. Qui sta il punto di volta. Perché, invece non pensare di aver incontrato Dio? Perché elidere la domanda fondamentale, ovvero la conoscenza non di un altro essere, ma dell’Essere? Altri commenti, come quello di Isaia von Fingan su Tempi, lo hanno evidenziato. Dunque non sono il solo spettatore ad aver alzato assieme a Cooper gli occhi al cielo non per dominarlo, ancora una volta, sino al prossimo imprevisto, ma per sperare d’incontrare ciò per cui il mio desiderio arde. Davvero “L'amore è l'unica cosa che trascende il tempo e lo spazio”, come recita la dottoressa Brand, ma non in senso sentimentale, bensì nell’oggettività che “l’amor che muove il sole e l’altre stelle” abbiamo bisogno di incontrarlo nella nostra vita perché essa non ne perda dei pezzi, come i figli per Cooper, ma li integri in un disegno ordinato che nessuno può darsi nel proprio immaginario, ma può scoprirlo solo in un rapporto personale con Dio. Tale prospettiva, che nasce dalla domanda di senso sul perché le cose accadano, sul perché la realtà non soddisfi, sul perché alcuni eventi aiutino sorprendentemente e diano gioia…viene completamente cancellata, censurata, silenziata. Non resta altro che un positivismo scientista, da una parte, ed un romanticismo precario, dall’altra.
In conclusione: Interstellar è davvero un film di fantascienza, poiché pone la scienza come elemento centrale ma anche come problema. Quando essa è usata come strumento per la superbia umana non può portare alla felicità che l’uomo desidera. Ho detto all’inizio che è un bel film. Ora posso distinguere meglio tale giudizio. È bello poiché è pienamente fantascientifico e poiché si pone in modo critico alla stessa proposta che avanza. Ma al contempo è incapace di indicare una soluzione al mistero, in continuità con una visione scientista che ne impedisce la formulazione. Bisogna dunque tenerne conto da un punto di vista educativo.