“L’isola del Dottor Moreau” 5 - Il confine tra l’uomo e gli animali

La domanda che corre sotterranea ed accompagna tutta la storia come in filigrana è quella tipica di molta produzione fantascientifica: “Chi è l’uomo?”. Ossia: che cosa distingue l’uomo dagli animali?
Fonte:
CulturaCattolica.it
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La domanda che corre sotterranea ed accompagna tutta la storia come in filigrana è quella tipica di molta produzione fantascientifica: “Chi è l’uomo?”. Ossia: che cosa distingue l’uomo dagli animali? Nella prima parte del romanzo vi è una continua confusione tra uomini e bestie: dal grottesco semiferino ubriacone capitano della goletta, allo strano “uomo deforme dal volto nero” (M’ling, un Uomo-cane) che accompagna Montgomery a fare scorta di animali da esperimento; dalle inquietanti presenze dell’isola (scambiate prima da Prendick per uomini ridotti ad animali, e poi decifrati come animali umanizzati). Ecco poi enumerate le più stravaganti commistioni: uomo-leopardo, porco-iena, orso-toro, cavallo-rinoceronte, volpe-orso, uomo-scimmia... Moreau sceglie la forma umana come modello perché in essa vi è “qualcosa che risveglia l’istinto dell’artista” (5). Secondo il romanzo, l’umanizzazione sarebbe l’esito della modifica della laringe (per permettere agli animali di parlare), di manipolazioni sul cervello e di ipnosi (per assicurare un comportamento accettabilmente simile a quello umano). Qui il materialista Wells prende una scorciatoia semplicistica, ed avvalora l’ipotesi di Moreau che tra uomini ed animali vi sia solo una differenza di grado, e non un vero e proprio salto di natura. Al limite sono meglio gli animali degli uomini (e Prendick dopo la morte dei due scienziati condivide la vita del “Beast people” per parecchi mesi, provando per loro compassione e pietà). Si sentono echeggiare quelli che diverranno gli argomenti degli animalisti sull’uomo “cancro della natura”, sintetizzati nella cinica frase di Prendick: “Un animale può essere feroce e anche astuto, ma per mentire bene non c’è che l’uomo”(6). Quest’occhio brutale e pessimista si riaffaccia nel finale, quando Prendick, tornato a Londra, non è più in grado di sopportare la compagnia umana, e vede in ogni fisionomia qualcosa di bestiale. “Allora mi guardo intorno atterrito e scruto i miei simili. Vedo visi intelligenti e luminosi, altri cupi e pericolosi, altri irresoluti e falsi. Non trovo un volto che abbia la calma umanità di un essere ragionevole” (7). E’ stato giustamente evocato da C. Pagetti il paragone con il J. Swift dei “Viaggi di Gulliver”: anche lì incontri con strani mostri, e conclusivo rifiuto dei propri simili.

NOTE
5. Herbert George Wells, L’isola del Dottor Moreau, in “La macchina del tempo e altre avventure di fantascienza”, Mursia 1966-80 (Volume II de “Le opere narrative di H. G. Wells”), pag. 318.
6. Id. Ibid., pag. 352.
7. Id. Ibid., pag. 359.