Il Mistero Uomo – “Il ritorno dei robot” di R. Moore Williams
“Come sostenuta dalla forza di un sogno, l’astronave sorvolava lentamente, aggraziata, la superficie del pianeta ad appena centocinquanta metri di altezza… atterrò dolcemente, come se ritornasse a casa stanca per i lunghi anni trascorsi tra le stelle.”- Autore:
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In questo inizio c’è già tutto. Siamo nel 1938, il mondo è alla vigilia di un tragico massacro, e Robert Moore Williams, quasi presentendo il sopraggiungere della catastrofe, scrive questo racconto, “Robot’s return”, per interrogarsi su chi è l’Uomo.
E’ la storia di Sette, Otto, Nove:
“tre piccoli uomini di metallo alti meno di un metro e mezzo. Due gambe, due braccia, due occhi, un naso, una bocca: questi ultimi due organi non erano tuttavia che inutili reliquie. I tre non avevano infatti nessun bisogno di cibo o di ossigeno: a rifornirli di energia provvedeva il calore degli atomi in continua esplosione. Né, in realtà, avevano bisogno delle gambe: la loro evoluzione durante ottomila anni era stata molto rapida”.
Sono tre robot umanoidi in giro per le galassie a cercare i loro antenati. Una antica mappa li guida ad un Sistema solare remoto, con nove pianeti attorno ad un sole.
I robot quindi si sono evoluti; non sono più ammassi di ferraglia e di circuiti utili al massimo per qualche compito operativo da schiavi (robot in lingua cèca significa appunto “lavoratore”), ma sanno ragionare, provano sentimenti, sono perfino differenti gli uni dagli altri: Sette è un brontolone polemico e piuttosto cinico, Otto un ottimista positivo, sempre pronto a incoraggiare e a trovare il buono della realtà. Nove a sua volta è il costruttivo e autorevole capo della spedizione, che richiama gli altri al compito esplorativo loro affidato:
“Ma il futuro si edifica con materiali tratti dal passato e, dunque, come potremmo edificarlo con sicurezza se non conosciamo il nostro passato? E’ molto importante scoprire se discendiamo da una razza di dèi o se ci siamo invece evoluti da forme di vita inferiori…”
Una volta sbarcati sul terzo pianeta del sistema, i tre robot hanno la strana sensazione di trovarsi a casa, un “déjà vu” nel guardare le collinette, le impronte dei laghi, le macerie delle metropoli…
Sì perché il pianeta è deserto, o meglio sta cadendo a pezzi e andando in rovina. Solo poca vita animale e vegetale ha resistito a un misterioso cataclisma.
Quasi senza accorgersi, Sette Otto e Nove ricominciano ad utilizzare gli apparati vocali e gli arti inferiori, di cui non avrebbero bisogno (sanno volare, e comunicano con onde radio). E incominciano la loro ricerca, quasi darwiniana agli inizi (seguono una logica evolutiva: se noi siamo macchine, i nostri antenati saranno macchine). Esaminano motori, locomotive, ascensori rugginosi e corrosi, cercano “gli anelli mancanti”. Cercano l’intelligenza meccanica che ha dato origine a tutto il processo. Ma le domande si affollano:
“Come ha potuto, all’inizio, il metallo senza vita forgiarsi nella prima macchina?”
“Da chi i robot avevano acquisito la capacità di sognare? E che senso o scopo aveva quella capacità?”
Finché un oggetto mezzo sepolto dalle macerie attira la loro attenzione:
“Un robot! Una copia quasi perfetta di noi stessi. Ecco, finalmente, la prova definitiva!”
Rimuovono il terriccio e ben presto si ricredono: “Non è uno di noi. E’ solo una statua”.
“Otto rimase a fissarla incantato… gli sembrava che quella statua fosse qualcosa di più della copia di un robot; qualcosa come la materializzazione di un’idea. Ma di quale idea si trattasse, non riusciva ad afferrarlo. Slanciata ed aggraziata, la statua giaceva dolcemente nel suo letto di polvere, ma emanava ancora una terribile sensazione di forza: un dio caduto, con la testa sollevata e il braccio teso…”
Un grido: una piastra di metallo riporta una scritta leggibile dai robot. E rivela una verità sconvolgente:
“Ora l’Uomo muore. Un batteriofago mutante, maligno e resistente più di quanto sia possibile immaginare, sta attaccando, mangiando, distruggendo tutte le cellule organiche, anche quelle dei cadaveri e delle carogne animali.
Sulla Terra non c’è speranza di salvezza. L’unica speranza sta nella fuga dalla Terra. Domani partiremo per Marte con il nostro primo razzo; per resistere all’accelerazione, ci porremo in stato di animazione sospesa e l’astronave verrà guidata dai robot di Thoraldson.
Forse riusciremo di nuovo a vivere. Forse moriremo.
Partiamo, e che Dio sia con noi!”
- Uomo. E’ una parola di cui non conosciamo il significato.
- Forse era il nome della forma di vita che ci ha creati.
- Un organismo… un animale… Eppure ci hanno creati loro…
- Ecco perché non riusciamo a trovare l’anello di congiunzione tra noi e le macchine. Essi svilupparono le macchine e le adoperarono. Essi erano provvisti di intelligenza. Ed infine costruirono delle macchine dotate di intelligenza propria.
- Dovevano cibarsi d’erba. Dovevano mangiare la carne di altri animali; dovevano essere delle creature molto deboli e fragili; dovevano essere sorti dal fango, è vero… Ma penso che ci fosse qualcosa di bello in loro… Perché sognavano… e anche se sono morti…
Otto rende omaggio al “sogno” dell’umanità perduta (come dire: desiderio, ideale, cuore acceso che cerca…) rimettendo in piedi la statua nella polvere. Ma la contraddizione e il dramma della condizione umana (così ben descritta nell’immagine del “dio caduto”) permangono: mentre i robot ripartono sulla loro astronave, “gli occhi ciechi e orgogliosi di una statua dimenticata parvero seguirli”.
Illustrazione di Chiara Ciceri
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— Gabriele Mangiarotti (@dongabriele) Settembre 28, 2012