Vittorio Alfieri: la vita come vocazione
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Leggendo la Vita di Vittorio Alfieri [1], straordinario documento di introspezione, di gran lunga la migliore autobiografia del nostro Settecento, “e forse non solo del Settecento” [2], si resta abbagliati dalla radicalità dello sguardo retrospettivo che l’autore getta sulla sua storia: tutto viene considerato alla luce di un fatto sconvolgente, dopo del quale niente fu come prima: l’insorgere di una vocazione alla poesia, prepotente e decisiva, alla quale lo scrittore si piegò, risultando così paradossalmente umile, di contro all’immagine stentorea che egli stesso volle lasciare ai posteri; è sufficiente pensare all’ostinata determinazione del famoso “volli, sempre volli, fermissimamente volli”, forse l’unica frase alfieriana che tutti conoscono. La Vita va letta a ritroso: tutti gli avvenimenti che precedono il sorgere della grande rivelazione “sono visti come anticipazioni dell’irresistibile vocazione poetica” [3]. A giudizio di Luperini, il vero tema del libro “non è tanto il recupero di tutto il passato, o il racconto degli episodi romanzeschi e avventurosi di cui Alfieri è stato protagonista, quanto la rievocazione delle tappe che gli hanno permesso di diventare scrittore. L’esperienza vissuta non viene solo narrata, ma anche giudicata in rapporto alla scoperta della propria identità, che avviene con l’approdo alla letteratura”[4].
Del resto, il manifestarsi di una fortissima volontà autobiografica è sempre stato un punto fermo della critica alfieriana, da Gioberti, che sottolineò romanticamente il carattere autobiografico del teatro dell’Astigiano, fino a Gioanola, che si avvale di raffinati strumenti di indagine, di derivazione freudiana [5]. Tuttavia, le pagine critiche che meglio hanno evidenziato le profonde strutture inconsce del linguaggio alfieriano sono ancora quelle di Giacomo Debenedetti, nel suo fondamentale saggio edito nel 1977, ma scritto tra il 1943 e il ’44 in circostanze drammatiche, a cui il presente studio è profondamente debitore [6]. Afferma Debenedetti che Alfieri “aveva bisogno che l’intero suo destino coincidesse con una vocazione di poeta” [7]; poco oltre il grande critico parla esplicitamente di un “avvenimento”, che portò a maturazione le inquietudini che travagliavano il giovane astigiano. Guido Baldi richiama con decisione la cifra religiosa dell’autobiografia: “lo schema su cui il racconto è costruito ricorda irresistibilmente la storia di una conversione religiosa: prima vi è l’inquietudine oscura dell’animo, proteso verso un oggetto che è ancora ignoto, poi il momento centrale della rivelazione, dell’illuminazione, a cui si ispira tutto il corso dell’esistenza successiva, in un esercizio rigoroso di ascesi, in una dedizione totale ad una missione. Basta sostituire alla parola ‘Dio’, che è propria delle conversioni religiose, la parola ‘poesia’, e lo schema coincide perfettamente. D’altronde è lo scrittore stesso ad usare il termine ‘conversione’ a proposito della scoperta della propria vocazione tragica. Alfieri ha un vero e proprio culto religioso della poesia: la scrittura poetica non è solo esercizio tecnico, retorico, come era allora abituale per la massa dei letterati, ma è la realizzazione suprema dell’essere, un qualcosa in cui, per continuare la metafora religiosa, si mette in gioco ‘la salute dell’anima’, il valore stesso della propria esistenza” [8]. È chiaro, comunque, che si tratta di una conversione secolarizzata, che non va caricata di sovrasensi indebiti. Anche Pazzaglia parla di “ansia religiosa”, pur sottolineando che lo scrittore “non aderì mai a una religione positiva, ma sentì tuttavia angosciosamente l’insufficienza della concezione materialistica e meccanicistica della vita che prevalse nell’età sua, fiduciosa di ritrovare nella ragione e nella scienza la risposta ai supremi interrogativi che l’uomo si pone sul perché del suo essere e del suo destino. Di là dalle scoperte scientifiche, l’Alfieri avvertì, ‘avvilito e scontento’, la ‘profondissima notte’, il mistero che circonda ogni cosa, l’inesplicabilità del nostro nascere e del nostro morire” [9]. Come si vede, si tratta di motivi che avranno ampia risonanza nella nostra letteratura, da Foscolo a Leopardi, fino a Pascoli e ai nostri contemporanei. A noi interessa cogliere i momenti rivelatori di questo avvenimento: che cosa successe in un giorno del 1769 o del 1774 capace di trasformare, sia pure lentamente, l’annoiato giovin signore piemontese nel massimo autore tragico italiano? Momento lungamente atteso e desiderato, pur tra le pieghe nascoste dell’io, se è vero che “la vocazione è la ricerca di una risposta alle esigenze del cuore” [10]. Due, a nostro avviso, furono i punti culminanti: il primo si riferisce alla scoperta della lettura, il secondo alla scoperta della scrittura. È noto come Alfieri abbia affrontato negli anni in cui frequentò l’Accademia militare a Torino, studi “pedanteschi e mal fatti”: anni di profonda ineducazione, in gran parte inutili, comunque non del tutto capaci di soffocare quella propensione per la bellezza che il giovane precocemente avverte, tanto da spingerlo alla lettura spontanea di Ariosto, Metastasio (autore poi irriso in una pagina famosa della Vita) e dell’Eneide nella traduzione di A. Caro. Ma “il libro dei libri”, che gli “fece veramente trascorrere dell’ore di rapimento e beate, fu Plutarco” [11]. È l’autore delle Vite parallele, lo storico delle “vite dei veri grandi”, letto nel 1769 a vent’anni, ad appassionarlo. Lo rilegge più volte ”con un tale trasporto di grida, di pianti, e di furori pur anche, che chi fosse stato a sentirmi nella camera vicina mi avrebbe certamente tenuto per impazzato” (Epoca III, cap. VII). Alfieri è come invasato, fa l’esperienza di chi è fuori di sé: è la rivelazione dell’altro che è in noi, che solo qualcosa di esterno fa scaturire. Ma non è ancora accaduto il kairòs, il tempo di grazia: gli anni scorrono ancora tra viaggi che assomigliano a fughe, per il giovane per il quale “l’andare era sempre il massimo dei piaceri; e lo stare il massimo degli sforzi”; tra amori “indegni” e passione per i cavalli, autentico simbolo di libertà selvaggia e indomita. Per l’altro momento di svolta occorrerà aspettare cinque anni: è il 1774 quando, dopo una malattia “fierissima e straordinaria”, che ha il sapore di una cesura col passato, lo scrittore si trova invischiato in un altro “indegno amore”, causa di “rabbia, vergogna e dolore”; sono i sintomi del desiderio di cambiamento, preannunciato appunto da insoddisfazione di sé; mentre trascina i suoi giorni nel più avvilente servaggio d’amore, lo scrittore ricorda come “mosso dal tedio”, presi dei fogli, cominciò “così a caso, e senza aver piano nessuno, a schiccherare una scena di una non so come chiamarla, se tragedia o commedia” (Epoca III, cap. XIV) [12]. Illuminante risulta la descrizione della fenomenologia dell’avvenimento, che supera la coscienza che può averne il soggetto: egli è totalmente investito da una forza “altra”: non fa progetti né calcoli, obbedisce a una voce; come direbbe Dante è l’Amore che “ditta dentro” (Purg. XXIV, v. 54). All’origine di una vocazione, ma anche di un amore, vi è un urto, un contraccolpo, un “essere colpiti da”, un affici, come sottolinea Giussani, secondo il quale “la parola ‘vocazione’ è l’evocazione più completa della parola ‘vita’” [13]. L’autore “comincia”, come afferma esplicitamente Alfieri: la vocazione è infatti questo inizio, questa messa in moto; è una “citazione”, un “ec-citamento”, così come vuole il verbo latino [14]. Tratto fondamentale della vocazione è infatti l’obbedienza, virtù umile, propria di chi riconosce l’evocazione a un destino. Il lavoro poetico consisterà nel seguire quella chiamata, riconoscendola nella sua profonda alterità, seguendone le tracce, ora luminose ora oscure. Fu questa corrispondenza a incanalare l’energia di Alfieri in direzioni più costruttive, a impedirne la fuga continua, anche da se stesso. Non fugge più grazie alla poesia: quel segnale tanto atteso, magari inconsciamente, è arrivato. “Il destino coincide finalmente con una vocazione di poeta: l’intimo assenso, l’entusiasmo di operare assicurano che era quella la coincidenza aspettata” [15].
Il segreto di Alfieri: la Mirra
La vocazione tragica di Alfieri prende corpo a partire da quella rivelazione. Pochi mesi dopo, nel giugno 1775, viene rappresentata Cleopatra, preannunciata nel passo della Vita che abbiamo esaminato. Seguiranno sette anni intensissimi, nei quali vengono composte quattordici tragedie, fra cui Agamennone, Oreste e Saul (quest’ultima dell’82, con cui l’autore pensava di concludere la sua attività). Vi ritornò invece dall’84 all’87, anni della composizione di Mirra. Il testo alfieriano attualmente più frequentato dalla critica e dai lettori è la Vita, mentre le tragedie, oltre che poco rappresentate, sono anche poco lette, al di fuori dell’obbligo scolastico, dove per altro la fortuna di Alfieri sembra in costante declino: non attraggono la rigidità della struttura, le pose declamatorie o enfatiche, il linguaggio inevitabilmente retrò. Eppure, non vi è dubbio che l’autore riservò a questo genere la sua genialità espressiva, toccando vertici assoluti in due opere per molti aspetti anomale, il Saul e soprattutto, a nostro parere, la Mirra. Avverte Branca che il linguaggio drammatico si presentava come “la forma propria ad esprimere le tormentose ambivalenze del temperamento, anzi dell’anima fondamentalmente ‘teatrale’ dell’Alfieri” [16]. Per Debenedetti “Alfieri fu poeta perché aveva una tragedia oscura in fondo al cuore” [17]; lungo tutto il suo libro il critico evoca un segreto di cui lo scrittore è depositario, “un segreto che non possa svelarsi nemmeno a lui, che faccia sentire soltanto la propria presenza” [18]. A noi sembra che il segreto di Alfieri sia celato nell’ultima e più anomala tragedia, la Mirra, terminata nel 1786.
L’anomalia è segnata da numerosi scarti rispetto alla norma del sistema tragico alfieriano: è assente la componente politica, l’ispirazione è data dalle Metamorfosi di Ovidio, vale a dire dal mito classico e non dalla storia, ma soprattutto è totalmente assente lo schema binario eroe/tiranno e il dramma si consuma interamente all’interno della protagonista.
La vicenda, analogamente alla Fedra di Racine, con cui non mancano i punti di contatto, pone al centro un amore incestuoso, quello della giovane Mirra per il padre Ciniro, re di Creta. Il motivo dell’angoscia della ragazza non viene espresso; invano i genitori, la nutrice Euriclea, il promesso sposo Pereo, che ella afferma di amare, tentano, con l’affetto, di scoprirlo. La situazione precipita nell’imminenza delle nozze; Mirra, sconvolta, rifiuta lo sposo che, disperato, si uccide. La rivelazione avviene nel dialogo finale tra la figlia e il padre, quando questi apprende con orrore di essere l’oggetto del desiderio; Mirra non può resistere alla terribile ammissione e si uccide con la spada paterna.
Tragedia della reticenza e dell’ambiguità, è stato detto: prima di tutto a livello linguistico, come traspare dallo straordinario quinto atto, dominato dalle sospensioni e dalle ellissi che tentano invano di spegnere il fuoco che divora la giovane, la quale “disperatamente” ama; il culmine dell’ambiguità è forse toccato da una battuta del padre Ciniro che, nell’estremo tentativo di strappare la confessione a Mirra, così le si rivolge:
“O figlia
unica amata; oh! che di’ tu? Deh! vieni
fra le paterne braccia. ”
Assolutamente geniale risulta il ricorso all’enjambement che, separando il sostantivo “figlia” dall’aggettivo “unica”, finisce per legare le parole “unica” e “amata”, consentendo alla giovane di aprire uno spiraglio di speranza nel suo animo sconvolto. In due rivelazioni successive, in cui la protagonista chiama per la prima volta il padre per nome e subito dopo quando emerge la gelosia verso la madre, si compie il dramma di Mirra, che va incontro alla morte, in un itinerario ricco di riferimenti simbolici, trafiggendosi con la spada del padre.
Come già nel Saul, anche qui entra in crisi il sistema tragico alfieriano: scompare l’opposizione radicale tra i protagonisti e si afferma una modernissima scissione dell’io. “L’azione sarà allora tutta raccolta entro un’anima; e l’urto non avverrà più fra personaggi diversi ma fra le passioni, le perplessità, le ambivalenze di una sola tormentatissima anima” [19]. Recentemente, Pietro Gibellini ravvisava in questa divisione dell’io la modernità del teatro alfieriano, riferendosi proprio alla Mirra: “l’eroe alfieriano non è vittima del destino ma dei suoi abissi interiori nei quali risulta arduo separare colpa e innocenza” [20]. La tragedia non nasce dunque in primis da un contrasto tra sentimenti e realtà, quanto dalla pena di dover confinare questo stato angoscioso al di sotto del livello della coscienza, perciò del nominabile: “il tema della Mirra non è l’amore di Mirra per il padre, non è l’orrore dell’incesto temuto e paurosamente, irresistibilmente, selvaggiamente bramato: è la condanna, l’asfissia di dover inghiottire proprio ciò che la fa così spaventosamente viva… è la modulazione del senso di una colpa”, chiosa Debenedetti [21]. Il grande critico ha letto l’opera di Alfieri secondo l’ipotesi interpretativa del “romanzo familiare”; lo scrittore sarebbe stato segnato da un difficile rapporto con la madre; le tragedie, e in particolare la Mirra, rivelerebbero appunto questa impotenza dell’amore filiale. Non a caso, i protagonisti sono sempre legati da rapporti di parentela, a conferma del clima edipico e potenzialmente incestuoso di tutta la tragedia alfieriana [22]. Anche senza condividere l’estremo psicologismo del critico, è certo comunque che l’ultima tragedia alfieriana si attesta sulla linea del chiaroscuro e della negazione: il chiaroscuro (già sottolineato dal Branca) traspare nell’“orrendo e innocente” amore di Mirra, come lo definisce l’autore nel suo Parere sulla tragedia; sempre nel Parere, Alfieri racconta di aver usato, a proposito di questo testo, il metodo dell’“operar tacendo”, come il tema stesso dell’incesto gli imponeva. Nella sua elaborazione tragica Alfieri si staccava decisamente dalla tradizione arcadica, volgendosi invece al teatro greco, “piegandolo però al principio del libero arbitrio, decisamente moderno, umanistico e cattolico (ebbene sì!). I suoi personaggi non sono più vittime sventurate di dèi tirannici, capri espiatori di colpe ancestrali, povere marionette mosse da un burattinaio indifferente e crudele: essi sono uomini liberi che cercano la verità nel groviglio della loro anima, che potrà essere sciolto solo dal discernimento responsabile”, come chiarisce opportunamente Gibellini, interpretando la svolta alfieriana come necessaria premessa al teatro di Pirandello [23].
Sulla traccia segnata da Debenedetti e soprattutto dalla lettura freudiana della Phèdre di Racine condotta da Francesco Orlando [24], si è mossa Paola Azzolini, analizzando il sistema delle negazioni simboliche nella Mirra [25]. La studiosa afferma risolutamente: “Mirra, come Edipo, è l’inconscio, cioè la pura e semplice drammatizzazione del tema dell’incesto nella sua realtà sacrilega e trasgressiva” [26]. Tale interpretazione è però contestata da Elio Gioanola, secondo il quale “l’edipo è troppo spiattellato per essere vero: Mirra sa benissimo di amare il padre, pur se vuole nasconderlo anche a se stessa, mentre Edipo uccide il padre senza sapere chi è e diventa sposo della madre non avvisato da sospetti” [27]. Anzi, prosegue il critico, Mirra, più che amare il padre, ama se stessa, compiendo così un itinerario dell’impotenza e del dramma narcisistico: il padre Ciniro, in questo senso, non è l’oggetto oscuro del desiderio, ma “semplicemente lo specchio che restituisce l’immagine di un’impotenza” [28]. E il destino di Narciso, come si sa, è la morte.
Tuttavia, a noi sembra che si possa giungere ad un’altra conclusione. Alla fine del suo percorso, Alfieri intuisce che il nemico non è qualcosa di esterno all’uomo, che si possa identificare e perciò combattere a viso aperto; il male si annida nel cuore dell’uomo, nel “guazzabuglio del cuore umano”, come dirà Manzoni ; è il “Misterio eterno/ dell’esser nostro”, come griderà Leopardi in Sopra il ritratto di una bella donna. Il primo passo dell’uomo è prendere consapevolezza di questo, di ciò che Alfieri chiama nel Parere “nascosissimo, ma naturalissimo e terribile tasto del cuore umano”. Nota Raimondi: “L’Alfieri si rende conto che ci sono delle forze oscure, che la notte è dentro all’uomo, che distruzioni operano al suo interno” [29]. Vittorio Alfieri chiude la sua opera con uno sguardo profetico al “cuore di tenebra” dell’uomo antico e moderno.
Note
1. Delle numerose edizioni, si cita da quella a cura di G. Cattaneo, Garzanti, Milano 1984.
2. E. Raimondi, Le ombre sull’abisso, in I sentieri del lettore, Il Mulino, Bologna 1994, vol. II, p. 294.
3. E. Gioanola, Letteratura italiana. Storia e testi, vol. II, t. I, Colonna, Milano 2001, p. 648
4. Cfr. R. Luperini, P. Cataldi, L. Marchiani, F. Marchese, La scrittura e l’interpretazione, vol. 2, t. II, Palumbo, Palermo, 1997, p. 36.
5. Cfr. E. Gioanola, Vittorio Alfieri: la malinconia, il doppio, in Psicanalisi, ermeneutica, letteratura, Mursia, Milano 1991, pp. 337-356.
6. G. Debenedetti, Vocazione di Vittorio Alfieri, Editori Riuniti, Roma 1977.
7. Id, p. 27.
8. Cfr. G. Baldi, S. Giusso, M. Razetti, G. Zaccaria, Dal testo alla storia dalla storia al testo, vol. C, Paravia, Torino 1999, p. 269.
9. M. Pazzaglia, Testi e lineamenti di letteratura italiana ed europea, vol. 2, Zanichelli, Bologna 1983, p. 1054. Tale prospettiva è risolutamente negata dal Branca:”il senso religioso e l’interesse per la storia - così essenziali ad ogni romanticismo - sono assenti sia dalle impostazioni sociali-politiche, che da quelle morali o di vita interiore. E sono assenti pure dalle convinzioni estetico-poetiche dell’Alfieri: non solo e non tanto da quelle proclamate, quanto da quelle che più intimamente regolano il suo impegno di scrittore… L’Alfieri letterato sembra muoversi fra i chiaroscuri del ‘furore’ secentesco e una concezione tipicamente razionalista della poesia”. Cfr. V. Branca Alfieri poeta dell’interiorità fra lirica e tragedia, introduzione a V. Alfieri, Agamennone-Mirra, Rizzoli, Milano 1981, p. 12.
10. L. Giussani, Si può (veramente?!) vivere così?, Bur, Milano 1996, p. 25.
11. V. Alfieri, Vita, cit., p. 90.
12. Id, p. 140.
13. L. Giussani, L’autocoscienza del cosmo, Bur, Milano 2000, pp. 193-194. 14. Su questo tema si vedano gli scritti di G. Contri, consultabili anche sul sito www. studiumcartello.it; cfr. in particolare l’intervento sulla rivista “Tracce” lug/ag 2004.
15. G. Debenedetti, Vocazione di Vittorio Alfieri, cit., p. 47.
16. V. Branca, Alfieri poeta dell’interiorità fra lirica e tragedia, introduzione a V. Alfieri, Agamennone – Mirra, cit., p. 25.
17. G. Debenedetti, Vocazione… cit., p. 66.
18. Id, p. 28.
19. V. Branca, Alfieri poeta… cit., p. 19.
20. P. Gibellini, Lo specchio di Alfieri, il primo dei moderni, in “Avvenire”, 7 ottobre 2003.
21. G. Debenedetti, Vocazione…, cit., p. 83.
22. Cfr., id, pp. 74 e segg.
23. P. Gibellini, Lo specchio di Alfieri…, in “Avvenire”, cit.
24. Cfr. F. Orlando, Due letture freudiane: Fedra e il Misantropo, Einaudi, Torino 1990 (ma la prima edizione dello studio su Racine è del 1971). Dello stesso autore si veda Per una teoria freudiana della letteratura, Einaudi, Torino 1992. Il testo freudiano di riferimento è un breve ma importante scritto del ’25, La negazione. Cfr. S. Freud, La negazione e altri scritti teorici, Boringhieri, Milano 1981.
25. P. Azzolini, La negazione simbolica nella ‘Mirra’ alfieriana, in “Lettere italiane”, Firenze, Olschki 1980, pp. 289-313.
26. Id., p. 295.
27. E. Gioanola, Vittorio Alfieri: la malinconia, il doppio, in Psicanalisi… cit, p. 355.
28. Id., p. 356.
29. E. Raimondi, Le ombre sull’abisso, in I sentieri del lettore, cit., vol. II, p. 307. Dello stesso autore si veda Il concerto interrotto, Pacini, Pisa 1979, in particolare alle pagine 65-190.