Manzoni e la cultura italiana

Un'esclusione mirata
Autore:
Mucci, Giandomenico s.i.
Fonte:
La Civiltà Cattolica - 3 dicembre 1998
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Pochi mesi fa Patrizia Valduga ha segnalato un grosso peccato di omissione dell’industria editoriale italiana. Si pubblicano a gettito continuo certi classici della nostra letteratura, sempre gli stessi, e da anni se ne trascurano molti altri, che sono diventati di fatto irreperibili o difficilmente reperibili (Cfr. P. VALDUGA, "Classici. La galleria degli introvabili", in Corriere della Sera, 14 settembre 1998, 25; G. FERRONI, "I primi a ignorare certi autori sono gli intellettuali", ivi, 18 settembre 1998, 35). E non si tratta sempre di classici "minori". Le opere complete di Petrarca devono essere consultate ancora nelle cinquecentine (e si usa solitamente quella di Basilea del 1554). L’edizione nazionale fu progettata nel 1904, sesto centenario della nascita del poeta, fu avviata nel 1926 e, dei trenta volumi previsti, ne sono stati pubblicati soltanto sette. Ed è ferma dal 1964. Si farà qualcosa in vista del centenario del 2004? Scrive Vittore Branca: "Dobbiamo aspettare dall’Estremo Oriente a imparare che Petrarca, oltre che sommo scrittore, è anche per l’uomo d’oggi "maestro di vita e di poesia"? Così lo definisce Kyoshi Ikeda, delle Università di Kyoto e Osaka, primo traduttore di tutte le rime due anni fa, facendo in qualche senso eco al premio Nobel Katzeburo Oe e alla sua evocazione di Dante vera guida per l’umanità contemporanea (V. BRANCA, "L’oscuramento dei classici", in Il Sole-24 Ore, 11 giugno 1995, 21)".
Da noi, c’è in giro la "stanchezza dei classici" appoggiata a una presunta lezione dell’esperienza (F. SALSANO, "Un ostracismo paludato di rinnovamento?", in Oss. Rom., 27 novembre 1988, 3). Non troppi anni fa, perfino un ministro della Pubblica Istruzione parlò a favore della sostituzione o, almeno della riduzione nelle scuole di grado superiore, di testi dichiarati ormai obsoleti, come Dante e Manzoni, a vantaggio di culture periferiche e parziali stimate più adatte alla formazione mentale e letteraria delle generazioni più giovani (Cfr. F. ULIVI, "Il frutto della disinformazione e dell’approssimazione nella scuola d’oggi", ivi, 7 giugno 1998, 3). Non ci si meraviglia allora se, in un recente concorso di ammissione al dottorato di ricerca in Italianistica all’Università "La Sapienza" di Roma, su 48 candidati presentatisi (ma le domande erano state circa 250) ben 23 hanno quasi immediatamente rinunciato, riconsegnando i fogli in bianco e dichiarandosi incapaci di svolgere il tema estratto, che proponeva la lettura e l’analisi del XXVI canto dell’Inferno. E il testo del celebre canto di Ulisse era fornito in fotocopia a ciascun candidato (Cfr. G. FERRONI, "L’Ulisse di Dante? I dottorandi gettano la spugna", in Corriere della Sera, 5 giugno 1998, 35). La maggiore responsabilità di tali fenomeni ricade certamente sugli indirizzi oggi prevalenti nelle nostre scuole, ma qualche responsabilità ha anche la stampa; che, secondo Claudio Magris, sembra assillata nelle sue pagine culturali dalla smania delle notizie insignificanti, dall’idolatria dell’attualità con il suo seguito di polemichette letterarie e di montature che producono l’asfissia intellettuale (Cfr. C. MAGRIS, "Cronisti-scrittori, penne bastarde", ivi, 15 dicembre 1995, 31. Una deplorevole maniera di ridurre la Commedia dantesca per i ragazzi è giunta all’attenzione della stampa nazionale. Cfr. il Giornale, 17 settembre 1998, 41). Ma bisogna evitare giudizi sommari anche in questo campo. È stata una giornalista a scrivere: "Nell’involgarimento della società italiana, nella degradazione, riduzione e sommarietà della lingua italiana anche quando viene usata dalle persone colte, nella perdita di identità italiana già percepibile e immaginabile ancora più accentuata con l’unione europea, il primo compito degli artisti e degli intellettuali è oggi quello di salvaguardare la grande tradizione italiana, di farla conoscere alle generazioni giovani, di ridarle vita e riportarla nell’esperienza quotidiana: dando pure occasione di manifestarsi alla grande bellezza dei classici, emozione nobile ma soprattutto espressione di alta civiltà in un universo sempre più feroce, angusto e cialtrone" (L. TORNABUONI, "Dante e Manzoni all’avanguardia", in La Stampa, 9 gennaio 1992, 2).

Spiegazione del titolo dell’articolo
A prima vista, queste considerazioni sembrano non riguardare Manzoni. Le sue opere, maggiori e minori, sono continuamente ristampate. Non mancano le biografie, sia pure di vario valore e taglio, da quelle documentate e critiche a quelle in gran parte fantasiose. Tra le prime, vengono in mente i nomi di De Feo, di Citati, della Ginzburg, di Ulivi. Tra le seconde, è d’obbligo citare la Astaldi (Cfr. A. CHIARI, Manzoni il credente, Milano, IPL, 1979, 263-269). A maggio, si sono chiuse a Milano due mostre documentarie dedicate ai rapporti di Ungaretti con Manzoni. Sempre a maggio scorso, è stata varata ufficialmente, a Milano, nel Centro Nazionale di Studi Manzoniani, l’edizione nazionale delle opere, cioè quel complesso di studi e ricerche sui manoscritti che condurranno alla stesura dei testi definitivi dell’intera produzione di Manzoni. È prevista la pubblicazione di circa trenta volumi entro il 2003. L’impresa è finanziata dalla Fondazione Cariplo con cinque miliardi di lire. Dell’intera opera sarà preparata anche una versione economica e un cd-rom. Molti e autorevoli gli studiosi chiamati a collaborare. Positivi i commenti della stampa (Cfr. M. COLLURA, "Manzoni. Il ritorno di un italiano scomodo", in Corriere della Sera, 14 maggio 1998, 31; O. PIVETTA, "II Manzoni nazionale restituito alla sua grandezza", in l’Unità 2, 16 maggio 1998, 2; C. CARENA, "Don Lisander tra Platone e Ungaretti", in Il Sole-24 Ore, 17 maggio 1998, 28).
Va dunque tutto bene per il Manzoni? Tutti d’accordo con i critici letterari antichi e nuovi che, con Geno Pampaloni, stimarono e stimano Manzoni il più grande degli scrittori italiani moderni sul piano della creatività espressiva? Quanti sono invece quelli che, con Enzo Mandruzzato, pensano che gli Inni sacri siano "un nulla poetico difeso dai preti dell’Ottocento e dagli abitudinari di oggi" (E. MANDRUZZATO, Il piacere della letteratura italiana. Per riscoprirla, rileggerla e amarla, Milano, Mondadori, 1996, 329). E Alberto Moravia accusava Manzoni di essere, più che un creatore di personaggi, un creatore di docili marionette. Commentava ironicamente l’Angelini: "Qui Moravia non manca di riguardo al Manzoni, ma a se stesso e al suo illustre ingegno" [C. ANGELINI, "Moravia e Manzoni", in ID., Vivere coi poeti, Milano, Fabbri, 1956, 28])? La cultura italiana ha condiviso il giudizio di Hugo von Hofmannsthal, che vedeva in Manzoni il massimo tra i poeti italiani più nuovi" (H. VON HOFMANNSTHAL, Saggi italiani, Milano Mondadori, 1983, 117)? Purtroppo, Manzoni è stato ed è un autore incompreso e poco amato. Lo sentirono estraneo già i laici dell’Ottocento, escluso però il De Sanctis. San Giovanni Bosco non lo riteneva un buon educatore dei giovani per le vicende di don Abbondio e della monaca di Monza. Lo stroncò dal punto di vista poetico, ma ricredendosi prima di morire, il Croce. Lo avversarono Gramsci, neorealisti, avanguardisti e formalisti. Nell’Ottocento, anche gli scrittori della nostra rivista ebbero dei gravi torti verso di lui (Cfr. G. AZZOLIN, Manzoni e i gesuiti della "Civiltà Cattolica", Roma, UCIIM, 1992). Ma, quanto a incomprensioni del Manzoni, ha superato tutti uno scrittore che, pur consapevole di commettere una provocazione esegetica, ha intravisto in un celebre capitolo dei Promessi Sposi "una simbologia di tipo iniziatico", "modi propri del rituale massonico" e "coerenti suggestioni massoniche" (I. URBANIS, "Conversione come iniziazione. La notte dell’Innominato e la luce di Lucia", in Hiram, gennaio 1992, n. 1, 32-34)!
La causa ultima, la pregiudiziale che sta a monte dell’incomprensione o dell’avversione, va ricercata nel tipo di cultura che ha dominato e domina sul panorama anche letterario in Italia. Riprendiamo l’analisi che ne fece a suo tempo Mario Pomilio (M. POMILIO, Scritti cristiani, Milano, Rusconi, 1979 2, 75-77). È stato Gramsci a stabilire, come compito della filosofia della prassi, lo sviluppo del suo dinamismo ideologico-pratico in un sistema organico che divulghi a ogni livello, cominciando dalla scuola primaria, una concezione della vita immanentistica e laicistica. Il fine di questo dinamismo è il nuovo corso della storia. Il suo strumento è la liberazione dell’uomo dalle sovrastrutture metafisiche e religiose. Viene a compiersi così nel marxismo la lotta contro la Chiesa e la tradizione iniziata dall’illuminismo. Due culture diverse, quella illuministico-borghese e quella marxista, si trovano d’accordo almeno sulla "dorsale laica" (Ivi, 75. Cfr. V. FAGONE, "Marxismo e cristianesimo negli scritti giovanili di A. Gramsci" e "Gramsci e la religione popolare", in ID., Il marxismo tra democrazia e totalitarismo, Roma, La Civiltà Cattolica, 1983, 195-236.). Diventa allora plausibile parlare di un’unica nozione di cultura avente nella dorsale laica, nell’Ottocento e nel Novecento, la sua base, il suo fondale nascosto, "il preciso fondale laico-immanentistico, per vari gradi antireligioso e in definitiva anticristiano", "una sorta di filo rosso che collega e rende omogeneo l’insieme della tradizione al di là della varietà dei suoi svolgimenti e delle spesso opposte sue manifestazioni" (M. POMILIO, Scritti cristiani, cit., 76 s.). Questa cultura, che cercherà poi nella prassi il suo inveramento, tenderà ad esprimersi in politicità e in ideologia, che "non è altro che una cultura in cerca di potere" (ivi, 77). Per questa cultura dominante, poteva non essere un problema Manzoni con la sua visione della vita integralmente e senza cedimenti cristiana e cattolica? Perciò abbiamo parlato, nel titolo, di esclusione mirata.

Le ragioni di un’esclusione

E la ragione prima dell’esclusione decretata dalla cultura immanentistica al Manzoni la si ritrova, capovolta, nell’elogio che gli rivolgeva Paolo VI nel centenario della morte: "Egli sentì che la letteratura è strettamente congiunta alla vita e la vita alla verità religiosa, e che non si può dare una risposta al segreto dell’arte se prima non sia intuita la risposta al senso della vita" ( PAOLO VI, "Lettera al card. Giovanni Colombo arcivescovo di Milano", in AAS 65 (1973) 302). Questo luminoso giudizio è un giudizio del poi. In realtà, neppure i cattolici contemporanei di Manzoni compresero la sua lezione artistica e la sua complessità di uomo. Arturo Carlo Jemolo ha studiato la non vasta popolarità che l’uomo, il poeta e la sua religione austera ottennero nell’Ottocento sia presso i credenti sia presso gli anticlericali, i giacobini e, più tardi, i socialisti (Cfr. A. C. JEMOLO, Il dramma di Manzoni, Firenze, Le Monnier, 1973, 1-41). Gli eventi storici e politici, ai quali Manzoni, cattolico e liberale, partecipò con rara chiarezza di idee e di scelte, e la diffusa cultura immanentistica fecero sì che Manzoni scontentasse gli uni e gli altri. Non a caso si parla di un’Italia antimanzoniana, nella quale, molti per essere a tutti i costi comodamente cattolici, molti altri per essere a tutti i costi istericamente laicisti, corsero il rischio di "non ammettere che il cattolico Manzoni aveva ragionato e scritto sull’orlo degli abissi: mentre non fece che questo" (G. TESTORI, "Manzoni, pro e contro", in Corriere della Sera, 11 aprile 1976, 3).
I cattolici, tuttavia, riconobbero, sia pure con ritardo, la loro parte di responsabilità nell’interpretazione riduttiva dell’opera manzoniana e ne fanno continua ammenda con lavori anche di grande ampiezza, tra i quali emergono quelli di Giovanni Getto e Ferruccio Ulivi. Sono invece i laicisti che ancora escludono Manzoni dalla mappa della coscienza letteraria (Cfr. C. BO, "Lui sì ha fatto storia", in Il Sabato, 9-15 marzo 1985, 17). Secondo loro, Manzoni "ripensa l’intero corso della storia moderna europea; pone sotto accusa l’umanesimo laico, il quale ha trovato apogeo nel Rinascimento; ripudia il metodo della sovversione violenta, con cui si è inteso modificare l’ordine sociale sostituendo nuovi errori agli antichi; indica la vera via del progresso in una conciliazione tra cattolicesimo e mondo moderno, concepita non come allontanamento dall’eredità controriformista ma proprio sulla base dell’assetto che l’organismo ecclesiastico si è dato dopo Trento" (V. SPINAZZOLA, ""I promessi sposi" e il mondo moderno", in Belfagor 32 (1977) 246). Se si guarda ai Promessi Sposi come a un messaggio di rinnovamento, si deve tener conto che, per il loro autore, rinnovamento dice innanzitutto palingenesi dell’io, che cerca il pentimento del peccato e la sostituzione della colpa con la virtù: un processo eminentemente interiore che precede cronologicamente qualsiasi rinnovamento della cosa pubblica. "Non l’esperienza politica ma quella religiosa appare allora decisiva per il nostro destino. Ma con ciò stesso i principi della ragion politica vengono oltrepassati, per riportarli a un criterio di verità che li trascende. L’impegno essenziale consiste insomma nel ricondurre per intero la socialità all’ombra della morale cattolica" (Ivi, 247).
L’interpretazione laicista giudica "semplificazione illecita" (Ivi, 259) del capolavoro manzoniano quella che identifica ogni moto di consapevolezza intellettuale ed etica, prima in una spinta verso la trascendenza religiosa, poi verso il messaggio cattolico. "Manzoni esclude pregiudizialmente che da una concezione immanentistica dell’esistenza possano generarsi orientamenti pratici, cioè ancora politici, volti a un fine di umanizzazione dell’uomo. Ciò significa negare che gli individui dispongano di risorse energetiche la cui naturalità antropologica sia suscettibile di sublimazione etica, prima e senza l’intervento del fattore religioso" (Ivi, 250). La colpa di Manzoni è una sola: in lui "la coscienza cristiana è avvinta fatalmente nelle spire del dogma cattolico" (F. CUSIN, Antistoria d’Italia, Milano, Mondadori, 1970, 79).
Non è bastato che la religiosità insistente e frondosa, quasi a scopo edificante, degli Sposi Promessi sia stata composta nel sereno nitore dei Promessi Sposi da una mente più calma e più saggia (Cfr. A. MOMIGLIANO, Dante Manzoni Verga, Messina - Firenze, D’Anna, 1965, 64-85). Non è bastato che, nell’edizione definitiva del romanzo, "quasi sempre l’artista ha assorbito il moralista cattolico" e "il giudizio del Manzoni sul mondo nasce dalla sua fede intelligente" (ID., Storia della letteratura italiana dalle origini ai nostri giorni, Messina - Milano, Principato, 1938, 448 s.). Non è bastata l’ammissione, da parte di un grande critico non credente, che "non c’è nei Promessi Sposi né un motivo fallito né una pagina di pedanteria religiosa" (Ivi, 452). Quella esclusione mirata resta, pur nell’ossequio all’equilibrio sovrano della sua arte. Carlo Bernari gli rimprovera il moralismo cattolico alleato della borghesia interessata a dividere il mondo in umili e potenti. Riccardo Bacchelli ammira la sua arte a patto di separarla dalla fede che l’alimenta. Guido Piovene sente ancora viva la sua presenza nonostante le sue concezioni religiose. Michele Prisco trova falsa o leziosa la sua ironia. Mario Tobino si irrita del fondamento religioso della sua arte. Scrittori non certo ideologicamente prevenuti, come Carlo Betocchi, Mario Luzi e Geno Pampaloni, confessano di avere con lui un rapporto di ammirazione e di diffidenza. "Al centro delle opposizioni sta naturalmente, ancora una volta, il suo cattolicesimo" (A. ACCAME BOBBIO, Alessandro Manzoni. Segno di contraddizione, Roma, Studium, 1975, 228 s.).
Più di tutti è stato forse lo Jemolo a cogliere quell’atteggiamento dell’anima manzoniana che ha creato nella cultura immanentistica la crisi di rigetto: "Manzoni è l’uomo che tende ad elevarsi dal contingente, a guardare all’eterno; analizza finemente il cuore umano, ma per trovarvi quello che è eterno, che si ripete costantemente negli uomini di ogni Paese e di ogni generazione. Pone il suo romanzo nel Seicento, ma i mali, gli errori che vede, sono quelli che si ripeteranno in tutte le generazioni successive; non crede nella bontà delle leggi degli uomini, se pure mostri le atrocità, gli errori fatali, cui possono condurre; l’uomo può operare il bene guardando a Dio, seguendo i precetti di una religione di amore; Manzoni ha sempre nel fondo del cuore il senso cristiano della vita terrena preparazione ad una vita eterna, il problema della salvezza. Chi ha quest’alta religiosità, non può considerare le strutture politiche che da lontano, con la sola preoccupazione che non ostacolino gli uomini nella via per la salvezza. Non può essere inserito né in un partito né in una particolare dottrina politica" (A. C. JEMOLO, Gli uomini e la storia, ivi, 1978, 85 s. Cfr. anche G. CENTORE, Colloquio con Cesare Angelini, Milano, All’insegna del Pesce d’Oro, 1986, 137).
Anche per questo verso, la cultura dominante non può capire Manzoni. Ma, grazie a Dio, non mancano, oggi neppure, gli intenditori che non si accodano al coro. Uno studioso che si dice non credente ha scritto recentemente del romanzo manzoniano come di "un libro grande e difficile, che facilmente può riuscire ostico al lettore di oggi, abituato a ben altri sapori". E ha aggiunto: "Un libro che può essere facilmente frainteso, scambiando la sua pudica ricchezza per povertà o, peggio, per bigotta faziosità. Sarebbe male, perché ci priverebbe di un alto e severo godimento" G. PETRONIO, Il piacere di leggere. La letteratura italiana in 101 libri, Milano, Mondadori, 1997, 184). E un altro scrittore, che aveva assistito al turbamento delle sue certezze antimanzoniane dopo gli studi del Momigliano, del Russo e del Pampaloni, confessava di non essere riuscito a "compromettersi totalmente" con l’opera di Manzoni, ma concludeva: "Ma non dimentico che c’era un libro solo, I Promessi sposi, al capezzale di morte dell’ateo e liberale Pannunzio" (C. LAURENZI, "Un Manzoni contemporaneo", in il Giornale, 2 marzo 1989, 3).

Manzoni inattuale?

Manzoni è ancora attuale. Non ci riferiamo a quella attualità che dipende dalla grandezza dello scrittore e dell’artista. Nessuno nega il valore della sua presenza letteraria e il valore e la complessità dei temi da lui ancora offerti all’indagine critica. Quando si sparse la notizia dell’ostracismo inflittogli, con il suo amato Virgilio, nel biennio della scuola media superiore, sorsero subito voci, controvoci, rettifiche che Umberto Colombo chiamò giustamente gattopardesche, letture oleografiche e viscerali attacchi contro, in una ridda di centinaia e centinaia di interventi sulla stampa nazionale e locale, a testimonianza che "Manzoni conta, che con lui, o ci si incontra o ci si scontra; che è un discorso costantemente attivo nella nostra coscienza (come ha detto Lanfranco Caretti): che non si può fingere una sua inesistenza" (U. COLOMBO, "Manzoni era un ribelle, anzi un rivoluzionario", in Avvenire, 7 giugno 1989, 13. Per la polemica su "Manzoni contestato", cfr. la Repubblica, 25 novembre 1988, 25). Per Giovanni Macchia, che gli ha dedicato alcuni saggi, Manzoni conserva quel rango di scrittore europeo, che già in vita gli riconobbero, con il Fauriel, Goethe, Stendhal, Balzac, Chateaubriand e Sainte-Beuve. Esso fa di lui un autore sempre sul punto di morire e sempre sul punto di risorgere (Cfr. P. DÉCINA LOMBARDI, "Macchia. Fra le ombre di Manzoni", in La Stampa, 1° maggio 1994, 17; R. MINORE, "Macchia scopre un altro Inferno: quello dei "Promessi Sposi"", in Il Messaggero, 2 aprile 1996, 19). Lo stesso illustre francesista ha dettato un ampio saggio per la recente edizione francese (la terza in meno di due anni) stampata da Gallimard. Dopo un lungo periodo di oblio, Manzoni sembra ritornare in quella Francia che, con la Lombardia illuminista, ebbe tanta parte nella, formazione del suo spirito (Cfr. A. DEBENEDETTI, ""I Promessi Sposi" alla conquista della Francia", in Corriere della Sera, 24 febbraio 1998, 31).
Manzoni è inoltre ancora attuale sul piano etico-politico. Non parliamo soltanto della deontologia sociale, riguardante i grandi e gli umili, che si ricava sia dal romanzo sia dagli altri suoi scritti (Cfr. A. CHIARI, Manzoni il credente, cit., 57-63). Parliamo del suo rifiuto del fanatismo e della violenza e del suo rifiuto del mito di classi privilegiate, alle quali un imperscrutabile disegno avrebbe affidato i destini del mondo. Parliamo della sua analisi del ruolo delle masse, quale coarcevo di passività e di estremismo nelle moderne società totalitarie. Le pagine sul processo agli untori nella Storia della colonna infame costituiscono un’analisi profonda della forza dei luoghi comuni e degli slogan, oltre che dell’immenso potere della propaganda. L’incompiuto saggio comparativo su La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859 contiene sezioni di dolente ironia sulle sommosse e rappresenta al vivo la fenomenologia del potere totalitario. Nei Promessi Sposi sono finemente descritti situazioni e comportamenti che, pur non essendo un’esclusiva del costume italiano, ad esso appartengono tuttavia in maniera singolare: la vendetta a catena, l’impunità mafiosa, la contestazione della legge a motivo delle ingiustizie sofferte, la viltà morale, le clamorose palinodie, la religiosità trionfalistica, l’ossequio servile al potere economico o ideologico. "Manzoni nostro contemporaneo, smascheratore ineguagliato delle nostre piccole coscienze" (L. MONDO, "I conti con Manzoni", in La Stampa, 25 aprile 1989, 3).
Questo magistero è stato ispirato e sorretto dalla religiosità cattolica. Questa non è in Manzoni pura accettazione della fede teoretica, ma è attivo convincimento dell’insufficienza umana e della presenza del male nella storia. Perciò egli non è mai stato il poeta del potere costituito. L’atto quinto dell’Adelchi riecheggia la parola di sant’Agostino, per il quale i regni, quando si separano dalla giustizia, non sono che latrocini. Il Cinque Maggio contempla Napoleone nel momento della sconfitta politica e militare. E se qualcuno volesse ancora insinuare la sciocca diceria di un Manzoni sedativo della coscienza, riprenda in mano quel Natale del 1833 con quel suo verso rivolto al Signore ("Sì che Tu sei terribile!"), nel quale, diceva Ezra Pound, quel "terribile" non appartiene alla serie degli aggettivi codificati per la poesia dalla tradizione aulica petrarchesca. Dalla sua religiosità Manzoni ha tratto la sua concezione della libertà come esigenza etica e religiosa del suo liberalismo, contro il mero potere e la mera utilità: una concezione che lo condusse, in tempi drammatici, ad ammettere come una necessità per la Gerarchia della Chiesa la libertà dal temporalismo politico per esprimere il suo insegnamento spirituale (Cfr. F. VALENTI, "Manzoni, una lezione sulle sue poesie", in Il Sabato, 12 dicembre 1992, 89s; F. LANZA, "Riflessioni sull’attualità di Petrarca e di Manzoni", in Oss. Rom. 13 dicembre 1997, 9).
A proposito di Manzoni, Mino Martinazzoli è giunto a parlare di anticonformismo, non tanto delle risposte, quanto delle domande, e a vedere in esso la più vera attualità dell’autore della Storia della colonna infame. "Va dunque riconosciuto questo perfetto impolitico. È un grande e solitario italiano il cittadino Alessandro Manzoni. Impolitico non perché ignorasse Machiavelli, ma perché non gli riusciva di comprendere un potere disgiunto dalla ragione morale. Impolitico perché la convinzione cristiana e l’attitudine liberale lo opponevano alla pretesa ideologica. Impolitico perché era certo che la politica ripiega sulla demagogia e sulla finzione, se le si pongono domande eccessive. Sapeva, al contrario, che tocca a ciascuno affinare e condividere il proprio talento in modo che sia appagato il bisogno di giustizia e risulti persuasiva la regola comune. Manzoni sa bene che il nitore delle costituzioni riluce su fondamenta opache e malsicure. Proprio per questo non fa il consigliere del Principe o il precettore dei sudditi. Denuncia - drammaticamente - il seme di una malignità che non si riduce per la radicalità di nuove regole, ma per una novità umana. Che riguarda il singolare e il plurale, così che i gesti personali e quelli collettivi non si giustificano per ciò che combattono, ma per ciò che rispettano. Tutte le ragioni della storia non redimono un solo rimorso" (M. MARTINAZZOLI, "Manzoni e le nuove inquisizioni", in Avvenire, 8 giugno 1997, 23).
Manzoni era davvero italiano?
Abbiamo qui esposto la principale ragione che ha generato il caratteristico fenomeno della esclusione di Manzoni dalla cultura italiana viva. Altre ragioni possono esistere. Pietro Citati ha colto quelle che, radicate nella personalità di Manzoni uomo, lo rendono poco simile all’italiano uomo e all’italiano scrittore. Non vogliamo privare il lettore del piacere che procura la pagina scintillante e allusiva del noto saggista: "Credo che l’unico modo per far amare Alessandro Manzoni ai lettori italiani sia quello di dichiararlo una volta per tutte, con decreto della Presidenza del Consiglio da pubblicare sulla Gazzetta Ufficiale, scrittore non italiano, ed espungerlo dai ranghi della nostra letteratura. Ai suoi tempi, gli amici e i lontani conoscenti di Manzoni lo avevano capito. Arrivavano da lontano ad incontrare il grande ragno nel suo giardino: ma appena vedevano lui e i suoi, nell’epidermide tenera, rosea e delicata di tutta la famiglia, nei capelli biondo-rossicci, negli occhi chiari e quasi sbiaditi, e in una specie di nuvola impalpabile o di lievissima cipria che avvolgeva i volti e le espressioni, nei gesti, nei balbettii, nelle incertezze, nei rinvii, nelle reticenze, nelle elusioni, - c’era qualcosa che li faceva sembrare inglesi. Non erano nati a Como o a Brusuglio o a Milano, ma lassù, nella grande isola che Manzoni non vide mai, e che non amò come la Francia.
"Chi lo conosceva bene, capiva che quella di Manzoni era la mente meno italiana che sia mai esistita. Quella mente immensa, ramificata, preparata come una grande filanda, dove mille telai battevano tutti insieme: attraversata da lente e instancabili connessioni: ma, a tratti, piena di incertezze, di ombre, di afasie, di inquietudini e improvvisamente interrotta da una buia voragine, dove tutto sembrava arrestarsi e precipitare, - quella mente pareva inglese. Manzoni era un gentiluomo di campagna del Gloucestershire, che leggeva i Salmi, Virgilio, Agostino e scriveva versi latini e, ogni tanto, veniva a Londra, al suo club, a ricevere gli amici borghesi, che trafficavano in lane e in letteratura.
"Bastava guardarlo davanti al fuoco. Negli occhi, aveva qualcosa di Jane Austen: nella grandiosa e focosa immaginazione, qualcosa di Emily Brontë: nella precisione e nella leggerezza storica, qualcosa di Stevenson: nella mente, moltissimo di Sterne e di James. Quando ci abitueremo a contemplare Manzoni molto lontano, tra i laghi e le brughiere, sono certo che tutti i nostri rancori scompariranno. Avremo per lui la comprensione e l’amore che si hanno per i grandi classici di un’altra letteratura" (P. CITATI, "Manzoni era inglese", in la Repubblica, 10 marzo 1989, 33).