La speranza di Tolstoj
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"La storia della vita di Ivan Il'ic era la più semplice, la più comune e la più terribile". Per affrontare il più universale dei temi, la paura della morte, Lev Tolstoj sceglie un uomo comune in cui tutti, almeno per certi tratti, possono riconoscersi. E' l'argomento di un famoso racconto dello scrittore russo, "La morte di Ivan Il'ic", pubblicato nel 1886 [L.N. Tolstoj, La morte di Ivan Il'ic, edizione speciale per il "Corriere della sera", Milano, 2002 (trad. di E. Klein)]. Ivan Il'ic Golovin è consigliere di Corte d'Appello a San Pietroburgo: ha improntato la sua vita cercando di aggirare tutti gli ostacoli, perché essa doveva scorrere "leggermente, piacevolmente, decorosamente".
Questa la sua giornata tipo: "Si alzava alle nove, beveva il caffè, leggeva il giornale, poi indossava l'uniforme e andava in tribunale". Lì si svolgeva il suo lavoro, che prevedeva l'incontro con varie persone e con i loro problemi; ma egli sapeva eluderli brillantemente, escludendo "la parte cruda, vitale che sempre s'infilava a intralciare il corso regolare dei processi"; bisognava evitare cioè "ogni relazione che non fosse d'ufficio". Il problema umano, ridotto a carta bollata, diviene facilmente controllabile e il consigliere può anche mostrarsi generoso e altruista. Diventa così "sempre più abile nel dividere la sua vita in due metà: quella sociale, gioiosa, piacevole, decorosa, e quella del lavoro, efficiente, obiettiva, compassata, severa. Tutte e due le metà di questa vita escludono l'umanità degli uomini, considerati esclusivamente alla stregua di meri casi giudiziari" (Fasanelli [L.N. Tolstoj, La morte di Ivan Il'lic, a cura di M.R. Fasanelli, Thema editore, Torino, 1992, p.32]).
Emblema dell'uomo moderno, foggiato secondo la propria misura, votato al successo e irrimediabilmente diviso. Così avviene con la moglie: scoppiati i primi contrasti, li risolve ignorandoli, trasferendo sul lavoro "il centro della sua esistenza". E' un funzionario stimato, gratificato dalla "possibilità di rinviare a giudizio e di mandare in galera chiunque"; cosciente del proprio potere, del successo e delle responsabilità che lo circondano. Ottenuta una promozione e un aumento di stipendio, si trasferisce a Mosca e compra un appartamento delizioso, arredandolo secondo i gusti dell'ambiente che frequenta; nelle sale ampie riceve gli amici per le amate partite di vint. E' soddisfatto anche dei figli, belli e giudiziosi.
Quasi irrilevante e inavvertito, accade un piccolo incidente domestico: mentre sistema una tenda, cade e urta il fianco contro una maniglia. L'abilità del narratore consiste nel nascondere il fatto, mimetizzandolo nella sequela dei successi del protagonista. Ma le conseguenze della caduta non tardano a farsi sentire; dapprima un leggero fastidio e in bocca "quello strano sapore", che comunque "non si poteva certo chiamare malattia". Il fastidio però persiste, e a nulla valgono i tentativi di distrarsi e di buttarsi a capofitto sul lavoro. Comincia la triste trafila di visite mediche e di cure sempre diverse, ma sempre più inutili mentre il dolore aumenta.
L'occupazione principale "divenne l'attenzione per il proprio male"; la famiglia vive la malattia del capofamiglia come un fastidioso inconveniente e quasi lo rimprovera per l'ostacolo che così crea alle relazioni mondane. Il solco con la famiglia, prima governato da una posizione di potere, si allarga di giorno in giorno. Non è più tempo di finzioni: "Sì, c'era la vita e se ne stava andando… Io non ci sarò, ma allora cosa ci sarà? Dove sarò, quando non ci sarò più? Possibile che sia la morte? No, non voglio". Improvvisamente e totalmente, cambia lo sguardo gettato sulla vita e sugli altri, inconsapevoli e distratti: "A loro non importa niente, ma anch'essi moriranno. Che stupidi!" Eppure, la certezza di morire accompagna tutta la vita umana. L'aveva pur studiato quel sillogismo: "Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, quindi anche Caio è mortale". Ma questo ragionamento "gli era sempre parso giusto, ma solo in relazione a Caio, non a se stesso. Un conto era Caio, l'uomo in generale, e allora quel sillogismo era perfettamente giusto; un conto era lui, che non era Caio, che non era un uomo in generale, ma un essere particolarissimo, completamente diverso da tutti gli altri; lui era il piccolo Vanja, con mamma, papà, Mitja e Volodja, con i giocattoli, il cocchiere, la governante, con Katja, con tutte le gioie, le amarezze, gli entusiasmi dell'infanzia, dell'adolescenza, della giovinezza. Forse che Caio conosceva quell'odore di cuoio del pallone a strisce che il piccolo Vanja amava tanto? O aveva baciato la mano della mammina e sentito frusciare le pieghe del suo vestito? Aveva forse protestato per i pasticcini? O era stato innamorato o aveva presieduto le udienze?"
In questa pagina indimenticabile Tolstoj fa rivivere in modo incantevole l'esperienza individuale, così spesso soffocata dagli uomini. Di conseguenza, Ivan rifiuta il pensiero della morte, perché "troppo orribile", sostituendolo con altri pensieri più sani. Ma la morte non era più solo un pensiero, ma un fatto e i fatti, come si sa, sono ostinati. Così, come per l'Innominato manzoniano, la morte "veniva sola, nasceva di dentro" (Promessi Sposi, cap. XX); per Ivan Il'ic essa diventa una presenza, un fatto, che avanza implacabile: "era una specie di realtà che arrivava e si fermava davanti a lui". Abitando insieme con la morte "Ivan Il'ic si lascia dietro le spalle le forme, le apparenze le convenienze, di cui tanto si era compiaciuto: intravede l'alone del sacro; e vive finalmente quella vita tragica, che solo pochi di noi conoscono.
Il racconto di Ivan Il'ic è la storia simbolica di ogni essere umano: ma è al tempo stesso, la storia di Tolstoj che, in quegli anni, si sentì invadere e penetrare dalla morte, la lasciò salire dentro di sé, visse con lei, in una pura ossessionante solitudine - occhi negli occhi, pensieri nei pensieri -, come non aveva mai vissuto con nessuna altra persona" (Citati [P.Citati, Tolstoj, Longanesi, Milano, 1983, p. 266]). Intanto la vista dei familiari, così irrimediabilmente lontani da lui, si rivela insopportabile; l'unica presenza gradita gli risulta quella del servo Gerasim, ennesima incarnazione del contadino tolstojano, secondo il modello di Platon Karataev di Guerra e pace, simbolo di vitalità e serenità, che lo assiste e lo cura senza ribrezzo. E' l'unica persona sincera, oltre forse al figlio minore, in un mondo dominato da decorose menzogne. Avvicinandosi la fine, il protagonista erompe nel grido di Giobbe: uscito il servo, Ivan Il'ic piange, "per la sua impotenza, per la sua terribile solitudine, per la crudeltà degli uomini e di Dio, per l'assenza di Dio. Perché hai fatto tutto questo? Perché mi hai condotto fino a questo punto? Perché mi tormenti così orribilmente?... Non aspettava nessuna risposta e piangeva perché non c'era e non ci poteva essere alcuna risposta. Il dolore tornò a infierire, ma egli non si mosse, non chiamò nessuno. Diceva a se stesso. 'Su, colpisci, ancora! Ma perché? Che cosa ti ho fatto?'"
Comincia un implacabile esame di coscienza, alla ricerca di qualche oscura colpa, di cui la malattia sia divenuta terribile punizione. Nulla resiste al vaglio della coscienza. Non il matrimonio, avvenuto "come per caso", seguito presto dalla delusione, né il "lavoro morto, le preoccupazioni finanziarie, un anno, due, dieci, venti, sempre uguale. E più si andava avanti, più tutto era morto": ma perché era successo tutto questo? E perché proprio a lui? Non si riconosceva colpe particolari. La vita non poteva essere "così assurda, ripugnante. E se invece era davvero così disgustosa e insensata, perché morire e con tali sofferenze? C'era qualcosa che non andava". Protesta la sua innocenza: "ma se ho sempre fatto tutto secondo le regole?" Le regole del perfetto funzionario non reggono di fronte al Mistero della vita e della morte. La trama della vita si capovolge e Ivan Il'ic diventa un imputato. Non a caso, questo sarà uno dei libri più amati da Kafka. L'imputato si difende: "Entra la corte… Ma io non sono colpevole! Gridò con rabbia. Perché allora?... perché, a cosa serviva tutto quell'orrore?". Ma la voce rispondeva soltanto: "è così, senza perché. Non c'è niente al di là di questo". La solitudine diventa insopportabile, più grande che "in fondo al mare"; e gli si presentano davanti i quadri della vita trascorsa, i ricordi infantili, le prugne dal sapore particolare, quasi madeleine proustiane. "L'unico punto luminoso era là, indietro, all'inizio della vita, poi tutto era diventato sempre più nero, sempre più veloce". Guardando i giorni primi, egli si rende conto che "più si andava indietro. più c'era vita. E più c'era vita, più c'era del buono in essa". Tutto questo avveniva "con gli occhi stanchi di guardare, ma incapaci di non guardare ciò che avevano davanti." Al culmine della disperazione grida: "se soltanto potessi capire il perché di tutto questo! Ma è impossibile.. Non c'è spiegazione! La sofferenza, la morte… Perché?" Si dispera per la coscienza di aver sciupato tutto nella vita; acconsente tuttavia a confessarsi e a comunicarsi e ne riceve un temporaneo sollievo. Ma gli ultimi giorni sono segnati da un grido ininterrotto: "Non voglio!" "Gli occhi dell'uom cercan morendo / il Sole", aveva detto il Foscolo dei Sepolcri.
Il racconto si chiude con una cupa allegoria: gli sembrava di essere stato infilato in un sacco nero, in cui egli si dibatte, cercando ancora di giustificarsi. Entra nella stanza il figlio adolescente, che gli prende premurosamente la mano; Ivan avverte una luce, si rende conto che la sua vita era stata piena di errori, ma che si poteva ancora rimediare. Si mette così "in ascolto. Sentì allora che qualcuno gli baciava la mano". Vede il figlio e ne ha pietà, così della moglie che gli si avvicina. Sussurra alla moglie: "Portalo via… mi fa pena e anche tu." Avrebbe voluto dire "Perdona", ma disse solo "abbandona". Di colpo "provava pietà per loro, voleva fare in modo che non soffrissero. Doveva liberarli e liberare se stesso da quelle sofferenze". Di nuovo, "si mise in ascolto". "Cercò la sua solita paura della morte, ma non la trovò. Dov'era? Quale morte? Non aveva alcuna paura, perché non c'era alcuna morte. Al suo posto, la luce. Ah! esclamò d'un tratto a voce alta: - Che gioia!. Avvenne tutto in un attimo e il significato di quell'attimo non cambiò più".
Così, con un'illuminazione estatica analoga a quella toccata ad Anna Karenina e al principe Andrej, si chiude il libro. Evidenti gli echi che questo racconto ha suscitato nella letteratura dell'Otto-Novecento: da Pirandello a Verga (i confronti con questi due autori sono ben motivati da M.R. Fasanelli nell'introduzione al testo già citato, che sottolinea in modo particolare le parentele con Mastro don Gesualdo e con la novella La carriola, ma potrebbero essere elencate molti altre opere), a Buzzati (si pensi, per la progressione inesorabile della malattia, al famoso racconto Sette piani), al poeta americano E.L. Masters (per la figura del giudice nell'Antologia di Spoon River) a numerose opere di Kafka, oltre alle riflessioni di Camus de Il mito di Sisifo e L'uomo in rivolta.
Ha scritto Giuseppe Pontiggia che quella di Ivan Il'ic è la morte più apparentemente disperata della letteratura, ma, a parere del critico, nel finale il protagonista supera il suo destino di esclusione e si apre agli altri: vede il figlio giovane, "spera in lui, ne ha pietà. E poi anche di sua moglie. Comincia a intravvedere un destino negli altri. Si attua così una forma - istantanea - di fede autentica" [Tracce, ottobre 2002]. La conclusione del racconto si presta ad altre interpretazioni, ma comunque si può affermare che Tolstoj intuisce che il dolore e la morte sono una presenza dentro la vita, non al di fuori di essa. La tentazione del grande scrittore russo è che al fatto della morte si possa rispondere con l'idea della salvezza. Egli, come tutti i grandi autori, ebbe la percezione che l'uomo è un grido infinito, e continuò a cercare Dio e il senso della vita ma, anche per l'influsso delle filosofie a lui contemporanee che avevano posto una barriera tra ragione e rivelazione, il suo pensiero si volse sempre più verso una spiritualismo disincarnato. Scrive Citati: "Dio rimase chiuso nel silenzio, e non rispose a richieste e a preghiere. Con un atto estremo dell'intelligenza, Tolstoj decise che Dio esisteva perché egli credeva in lui" [P. Citati, op. cit. p. 260]. Non è Dio che crea gli uomini, ma sono gli uomini, con le loro idee, a creare Dio. Ma nella concretezza dell'arte e forse anche della vita, questa teoria non bastò a Tolstoj.
Alla fine del racconto che abbiamo preso in esame balena non un'idea, ma una presenza. Solo una presenza, che sia segno di un'altra presenza, può sostenere la fatica del vivere: questo è ciò che intuì il genio di Dante, quando indicò nella Madonna la figura della speranza: "se' di speranza fontana vivace", (Par. XXXIII, 12). Claudel ha scritto che Dio ha risposto al dolore dell'uomo non con un discorso, ma con una presenza. Forse il grande Tolstoj, così come il suo personaggio, non seppe sostenere fino in fondo il suo desiderio, non seppe rimanere spe erectus [Cfr. Rm 12, 2]. La speranza, infatti, riguarda qualcosa che deve avvenire, ma nel presente si fonda sull'intensità di un desiderio che si protende [L. Giussani, Vivendo nella carne, Rizzoli, Milano, p. 262].