La religiosità dell'"Ortis" 2 - L’eroe romantico e il suo senso religioso
- Autore:
- Curatore:
- Fonte:
Ortis è da un lato attratto dalla forte fede della madre a cui chiede benedizioni e preghiere fino alla fine, dall’altro percepisce che non ha mai amato Dio tanto quanto ama Teresa che è per lui divenuta un vero e proprio idolo. Un’urgenza di Dio, un anelito di pienezza e di senso emergono nelle sue parole quando scrive, rivolgendosi al Creatore:
Io non t’adoro, appunto perché ti pavento – e sento pure che ho bisogno di te. […] Spogliati degli attributi di cui gli uomini t’hanno vestito per farti simile a loro. Non se’ tu forse il Consolatore degli afflitti? E il tuo Figlio Divino non si chiamava egli il Figlio dell’uomo? Odimi dunque. Questo cuore ti sente, ma non t’offendere del gemito a cui la Natura costringe le viscere dilaniate dell’uomo. E mormoro contro di te, e piango, e t’invoco, sperando di liberare l’anima mia- di liberarla? Ma e come, se non è piena di te?
Teresa o Dio? Questa opzione è sintomo della spaccatura che vive Ortis. Il cielo o la terra? L’amore per Dio o per la sua creatura? Dio non c’entra più con la vita. Scegliere lui significa allontanarsi dalla vita. Nel contempo, Ortis, che non vive la carnalità del cristianesimo in seno alla chiesa, ritorna al Dio disincarnato, distante e vendicativo dell’Antico Testamento tanto da apostrofarlo con le parole dell’Esodo:
Dio forte, prepotente, geloso, che rivedi le iniquità de’ padri ne’ figli, e che visiti nel tuo furore la terza e la quarta generazione.
Il passo dalla percezione di un Dio lontano alla sua negazione è breve. A Ventimiglia, quando medita di fuggire in Francia, nella lettera del 19 e 20 febbraio del 1789, Ortis sembra approdare a un materialismo integrale che non ammette opposizioni. È solo un’impressione. Le ultime lettere sono intrise, infatti, di religiosità, di desiderio di Dio, di struggimento per la fede perduta. Sul comodino della sua camera da letto sta la Bibbia, nel taschino della giacca si trovano le lettere della madre a cui lui chiede la benedizione. Ortis si trafigge nel costato con un pugnale. Le ultime parole scritte all’amico Alderani richiamano quelle pronunciate da Gesù in croce nel Vangelo di Luca. I suoi ultimi giorni sono percorsi da evidenti richiami alla passione di Cristo. L’analisi sarebbe qui lunga. A titolo di esempio si ricordi che Ortis si ferma a casa di un contadino e chiede da bere, che muore con un pugnale conficcato nel costato, che affida la madre a Lorenzo Alderani come se fosse un figlio e affida l’amico alla madre (come Gesù in croce di fronte alla Madonna e a Giovanni), … Vi è, poi, una lunga serie di citazioni evangeliche, come ad esempio: «Se il Padre degli uomini mi chiamasse a rendimento di conti, io gli mostrerò le mie mani pure di sangue, e puro di delitti il mio cuore. Io dirò: Non ho rapito il pane agli orfani ed alle vedove; non ho perseguitato l’infelice; non ho tradito […]. Ho spartito il mio pane con l’indigente[…]». La morte avviene il 25 marzo 1799, data fortemente simbolica per la tradizione cristiana: in quella data, infatti, la morte di Cristo coincide con l’incarnazione.
Ribelle e raffinato, sensibile ed elitario, Ortis è animato dallo Streben, una sete di Assoluto che gli fa percepire che l’uomo è fatto per il Cielo. È figlio, però, della sua epoca. Lui, che percepisce tutti i limiti di quell’Illuminismo che ha esaltato una ragione come misura di tutta la realtà, è imbevuto di quella cultura materialistica secondo la quale nulla di ciò che è materia si distrugge, ma si trasforma. Lui che ha nostalgia della fede di quando era piccolo, che guarda la Via Lattea indagando il Mistero, è solo e non riesce a sostenere la vertigine del senso religioso umano. Ha rescisso i ponti dalla comunità, dalla chiesa, vittima in ultima analisi non tanto della società, ma di quella cultura illuministica che ha voluto creare una terra desolata, dove Cristo e la chiesa non avessero più diritto di cittadinanza. Senza la chiesa e nella solitudine la domanda dell’uomo rimane senza risposta e il dramma umano si tramuta in tragedia. Ma non basta la domanda, quando si è soli e tutto va male, quando nella vita domina il senso di assenza. Questo vale per Ortis, questo era già evidente nell’opera da cui Foscolo ha tratto tanta ispirazione, quel Werther di Goethe in cui il protagonista finirà i suoi giorni suicida, in seguito ad una delusione amorosa, quando scopre che la sua amata Carlotta è andata in sposa ad un altro.
Il capolavoro di Goethe è, però, quel Faust in cui il protagonista arriva a fare un patto con il diavolo pur di ottenere il suo obiettivo, la felicità. Un inesausto e instancabile impeto a compiersi anche se ciò significasse contrapporsi a Dio, una sorta di titanismo moderno, è l’altra faccia dell’eroe romantico. Se da un lato l’immagine dominante è quella di un eroe che cade vittima dei tempi e del destino, dall’altra si afferma un uomo che, pur di compiersi al momento, si perde per l’eternità. In maniera emblematica Faust avrebbe perso la sua anima per sempre se avesse pronunciato la frase: «Fermati o sole, perché adesso sono felice». La punta estrema di questa religiosità romantica è un titanismo che in ultima analisi rescinde i rapporti con il destino ultimo e con l’eternità.