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Introduzione a Manzoni (2)

Autore:
Filippetti, Roberto
La verità nelle opere



La verità nelle opere

A) La Pentecoste: la «verità» entra nella storia
Al culmine del decennio 1812-22, apertosi con la celebrazione dell'«evento» salvifico di Cristo, nato da Maria, morto e risorto in una precisa epoca storica (i primi quattro inni sacri), si colloca La Pentecoste, capolavoro dell'innografia italiana.
Già il titolo pare celare la chiave di lettura cifrata del testo: La Pentecoste significa infatti in greco «cinquantesimo». Cronologicamente la discesa dello Spirito Santo accade cinquanta giorni dopo la Pasqua di Resurrezione di Cristo, e coincide con la nascita della Chiesa. Simbolicamente, essendo il numero «cento» la cifra biblica della pienezza e dell'intero (cento pecorelle, il centuplo quaggiù, ecc.), cinquanta ne è l'evidente «metà»: è, secondo le ultime parole del "Credo", «La Chiesa, una santa cattolica e apostolica», la via verso la pienezza e interezza della palingenesi escatologica, «la resurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà».
Insomma La Pentecoste è un «già e non ancora»: un «già» in quanto vi culmina la prima «metà» della storia, dalla Creazione al pieno disvelamento della Redenzione operato dal Paraclito; un «non ancora» rispetto al compito di portare l'annuncio fino agli estremi confini della terra e rispetto all'attesa del ritorno finale di Cristo. Anche la "gabbia metrica" in cui l'autore dimensiona il testo pare alludere a tutto ciò: è infatti un inno di 144 settenari, ove, secondo il biblico simbolismo delle cifre, sia il sette che il 144, in quando quadrato di dodici (gli Apostoli come le Tribù d'Israele), sono numeri che esprimono la totalità, la pienezza di perfezione. La Pentecoste è il punto d'inserzione di una retta che dall'infinito di Dio va verso l'infinito di Dio. E con sette vocativi si apre, corale, l'inno, rivolgendosi dapprima allusivamente e solo infine esplicitamente (v. 10) alla Chiesa.
Chiusa fra l'iterato «dov'eri?» (vv. 11 e 28) l'affermazione che nell'epoca della Croce, della Resurrezione e dell'Ascensione, la Chiesa come autocoscienza non vi è ancora. Terrorizzata, al chiuso di «riposte mura» è sorpresa dall'iniziativa dello Spirito di Dio che discende, rinnova e trasforma quello sparuto gruppo di discepoli in un faro per la vita dell'umanità, un luogo «cattolico»: capace di parlare al cuore di tutti i popoli (strofe 5-6). È la possibilità della "conversione": l'idolatra, la terra tutta, le gestanti, hanno ora un luogo verso cui dirigere «lo sguardo» (str. 7-8).
Le strofe 9-10, giusto nel cuore della lirica, svolgono le implicazioni culturali della fede: la prima, tutta interrogativa, certo allude alla «famosa triade, libertà, eguaglianza, fratellanza», ma non è, come sosteneva il De Sanctis, «l'idea del secolo battezzata sotto il nome di idea cristiana» è piuttosto ridare la sua radice religiosa ad un umanesimo che secolarizzandosi non sa più adeguatamente fondarsi e degenera nel terrore, come l'esito della Rivoluzione francese aveva dimostrato. E non è frutto di autosufficienza umana, bensì iniziativa del Signore elevare «i miseri» alla dignità regale, ad una uguaglianza come fraternità in Cristo che «a tutti i figli d'Eva / nel suo dolor pensò».
La 10 strofa, tutta affermativa, costruita sull'anafora «nova-(nove)-nove-nova», grida appunto la «novità» radicale introdotta dallo Spirito nella storia: l'interiore libertà, gloria e pace.
Le strofe 11-18 sono nel segno del «non ancora»: vi si distende in tono tra l'imperativo e l'esortativo la preghiera allo Spirito elevata da un corale «noi», espressione dell'unità nella diversità (str. 12). Ed è incalzante supplica, tesa a impetrare che l'iniziativa dello Spirito Divino continui a trasformare il reale nel presente, secondo questa scansione verbale nelle strofe 12-15: «noi T'imploriam - discendi - scendi (ricrea - rianima). Discendi (attua - dona); noi T'imploriam - scendi - scendi (vi spira)».
Questa verticalità discendente genera, nella strofa 16, una verticalità ascendente: l'uomo può sollevare lo sguardo al cielo e trarne l'autocoscienza della propria dignità per la somiglianza con Dio e la decisione a costruire fatti di gratuità.
Un "climax" finale percorre, nella luce di pregnanti preghiere allo Spirito, tutta la parabola della vita, scandita in otto tappe, fino alla morte illuminata dalla virtù teologale della speranza.

B) Dalle tragedie al romanzo: la «verità» incide nel presente
Dal 1816 al 1820, Manzoni si dedica alla composizione della prima opera tragica, Il conte di Carmagnola (1425-1432). A personaggi storici sono affiancati personaggi d'invenzione (Marco, senatore veneziano, Marino e altri). È un'opera giudicata, dal punto di vista estetico, poco felice, o per lo meno frammentaria. In un'età che ha il culto del prestigio e della forza, il Conte lega la propria affermazione alla violenza, a lotte fratricide. La morte lo libera da questo dissidio. Di fronte a «fatti atroci dell'uomo contro l'uomo», si espone lo sconforto dello spettatore impotente: non cooperare al male sembra il massimo della virtù. Ma in positivo resta nella memoria quel giudizio antropologico che, se riconosciuto ed accolto, è fondamento di una civiltà della verità e del l'amore: «Tutti fatti a sembianza d'un Solo, / figli tutti d'un solo Riscatto, / ... siam fratelli».
Nel 1819 pubblica le OMC, che è stata definita il «miliarium aureum» della futura produzione poetica. In una prosa nuova nella storia della letteratura italiana, che già presenta in nuce il carattere limpido e discorsivo della prosa del romanzo, vi si afferma, tra l'altro, che nella storia vive un fermento evangelico misto ad errori; è nella misura in cui quel fermento si sviluppa che l'umanità può progredire.
In seguito a un nuovo soggiorno a Parigi, matura in Manzoni il progetto di una seconda tragedia. Nella capitale francese aveva conosciuto il Thierry, il quale sosteneva che erano esistite discriminazioni fra razze conquistate e razze conquistatrici ma non c'era stata fusione.
Applicandosi allo studio del Medioevo italiano, Manzoni giunge alla conclusione che neppure fra Longobardi e Italiani era esistita vera fusione, bensì oppressione dell'uno e soggezione dell'altro, contrariamente a quanto affermano gli storiografi, i quali non rammentano che le prodezze dei vincitori (Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia).
La tragedia è portata a termine nel 1822. Vi è rappresentato l'ultimo dissidio di Adelchi, diviso tra il difendere il padre e l'onore del regno e la persuasione di combattere per una causa ingiusta.
Dell'Adelchi, Manzoni è insoddisfatto (la tragedia, ad ogni buon conto, è ritenuta l'espressione più alta del teatro romantico italiano): è costretto dalle leggi della tragedia a portare alla ribalta i potenti; non solo, ma sempre più compenetrato nella verità evangelica, sente insufficiente la sua stessa poesia.
Se il Regno di Dio è promesso a tutti e più facilmente si schiude ai semplici, perché rivolgersi a pochi eletti? Dominato dall'assillo di verificare se le sue convinzioni abbiano tanta forza da intaccare la tradizione letteraria italiana, prevalentemente accademica, retorica, cortigiana, lontana dalla quotidianità, Manzoni sente la necessità di trovare nuove forme espressive e arriva a concepire il romanzo. Nodo fondamentale della sua riflessione resta il mysterium iniquitatis presente nella storia, in cui «la mente si perde, se non lo considera come uno stato di preparazione e di prova a un'altra esistenza».
Nella sua visione pessimistica, ma del pessimismo cristiano che non sottovaluta cioè la capacità di male dell'uomo, Manzoni vuole additare la via per cui l'uomo, in qualsiasi situazione, può, con la guida della religione, vivere e agire secondo giustizia.
Ma c'è un approfondimento nella visione dell'esistenza: nel Carmagnola, la vittima innocente si apre ai valori cristiani nel momento supremo, solo quando non ha più modo di viverli né di farli vivere quaggiù; nell'Adelchi, l'uomo, che persegue quei valori, ottiene la ricompensa, ma oltre la vita; il pessimismo genera inazione («loco a gentil opra non v'è... non resta che far torto o patirlo»): nei Promessi Sposi la ricompensa (= la felicità) dei giusti c'è, sia pure imperfetta, anche in questa vita. E si apre uno spazio per l'azione degli uomini di Dio (vedi fra Cristoforo, il Cardinale). All'inazione che caratterizza le tragedie si contrappone la possibilità di azione.
Mutamento di prospettiva: si amplia l'area sociologica dell'opera
Se nel Carmagnola il conflitto è tra l'uomo e la politica, le istituzioni che lo soffocano;
se nell'Adelchi si vuole indagare sulle vie che hanno spinto ad agire quegli uomini di cui la storia parla; nei Promessi Sposi si vuole rappresentare la storia delle «genti meccaniche e di piccol affare» che la Historia ufficiale ignora e trascura. (Nell'Introduzione, dell'Anonimo si critica lo stile, ma non la scelta di parlare degli umili di cui la storia non parla).
Quindi, Manzoni approda a un nuovo tipo d'invenzione, l'invenzione di protagonisti e di azioni senza la guida della «storia ufficiale», veri d'una verità possibile, non reale.
Che i protagonisti dell'opera siano dei personaggi umili significa che ad essi è affidato il ruolo di indicare dei modelli elevati di comportamento, di costruire degli exempla. (cfr. Introduzione ai Promessi Sposi).

Lo stile
Un simile ribaltamento si ha, di riflesso, anche nello stile. Lo stile medio o basso era riservato dalla tradizione classicistica agli strati inferiori della società, mentre lo stile elevato o sublime della vicenda interiore (del comportamento esemplare) era proprio dei personaggi aristocratici.
Nei Promessi Sposi, la «gente di nessuno, senza un padrone», ma che sta sotto l'egida di Dio, è esposta alla tragedia-sublime, mentre la deformazione comica tocca, semmai, i potenti e coloro che servono i potenti (Don Gonzalo, Ambrogio Spinola, il podestà, Azzeccagarbugli, il notaio criminale ... ).
In sostanza, il comico e il tragico non sono più appannaggio di classi sociali, ma sono legati al grado di dignità morale dei personaggi. E degni sono i protagonisti, Renzo e Lucia.
Iter di Renzo
Dei due promessi, Renzo soprattutto conosce una vicenda morale ed esemplare. È un processo di maturazione che egli compie: scopre l'ingiustizia, la sopraffazione, l'inganno della parola (come oggi i persuasori occulti); attraverso quest'esperienza diventa cosciente della necessità di allontanare da sé ogni tentazione di violenza: Renzo perdona, anzi arriva a pregare per il proprio nemico, come Adelchi morente aveva pregato per Carlo.
Come Ulisse, Enea, Dante, anche Renzo conosce la discesa agli Inferi, secondo la dinamica della "curva comica" (Frye): è il suo contatto col mondo della città, ove regnano valori capovolti anche rispetto alla ragionevolezza. È una Milano che, a Renzo fuggitivo, appare mondo rovesciato, una città babelica, in cui la comunicazione è impossibile, come a Babele, dominio del diavolo (dia-ballo), la confusione delle lingue impediva la comprensione reciproca (le sue parole vengono equivocate).
Ma ancora più significativa è l'esperienza di Renzo al suo secondo ingresso a Milano, quando infuria la peste. Attraversare questo regno della morte vuol dire per Renzo riconquistare la vita, cioè la salvezza, una salvezza, innanzi tutto, in ordine alla vita spirituale (il perdono), ma anche in ordine alla felicità terrena (il ritrovamento di Lucia).
Come Dante, fatta l'esperienza del male (oggettivato qui nella condizione della città e dei suoi abitanti), Renzo ha compiuto la purificazione necessaria.

Conclusione del romanzo
A questi concetti si ricollega anche la discussa chiusa del romanzo.
Il problema del «Perché vanno via?» i due promessi, una volta superati gli ostacoli che si frapponevano al matrimonio, è stato sollevato da C. Angelini, in un articolo del 1969. L'Angelini non trova nessun motivo che giustifichi il trasferimento nel bergamasco. Altri sono intervenuti sulla questione; è stato osservato che questo non è che un ulteriore elemento volto ad attenuare il lieto fine, al mondo non c'è felicità perpetua (accanto ad altri il riaprirsi del divario fra le classi sociali e quindi le mense separate che concludono le nozze, le difficoltà di inserimento nel nuovo paese ecc.). Ma fra i vari contributi il più significativo è senz'altro quello di G. Barberi-Squarotti. Secondo il Barberi-Squarotti, l'abbandono del paese natio mostra anche esteriormente il mutamento avvenuto nei protagonisti, la cui vita non può continuare che «altrove». Lucia e soprattutto Renzo, come abbiamo visto, hanno fatto esperienza del male del mondo, del male che è nella storia, di quel mysterium iniquitatis insomma, e il male l'hanno vinto con l'aiuto di Dio, sono cambiati e devono andarsene.
N.B. - Si può allargare il discorso a un confronto dello schema del romanzo con quello di altri romanzi di epoche successive. La struttura è questa: l'eroe è costretto, o da altri o per colpa sua, ad andarsene dal paese natio; e se vi fa ritorno, è solo per una tappa prima della partenza definitiva. Esempio: I Malavoglia (1863-76). 'Ntoni Malavoglia non può tornare nella casa del nespolo (che rappresenta il luogo dell'innocenza), dopo che ha fatto l'esperienza della società, di una vita diversa. Neanche gli altri componenti della famiglia tornano, dopo che si sono allontanati dalla casa (Bastianazzo annega, Lia va in città, Luca muore nella battaglia di Lissa, Padron 'Ntoni muore all'ospedale). Possono restare solo Alessi e la sua sposa, innocenti rispetto a quella che da Verga è sentita come una colpa: il voler mutare la propria condizione (voler uscire dall'eden = lo stato di natura che ogni trasformazione sociale o economica infrange). Lo stesso schema si ritrova poi anche in romanzi del '900: pensiamo al protagonista di «La luna e i falò» di Pavese. Anguilla: anche lui, alla fine del romanzo, se ne va.
Volendo esprimere il concetto in termini più generali: nell'«eden» dopo la conoscenza del mondo non si può restare; la nostalgia di un ritorno alle origini, a uno stato di perfezione e di innocenza, è senza sbocchi, è frustrata. Non solo, ma in quell'orizzonte laicista il fatto che l'eden sia irraggiungibile genera una profonda angoscia. I personaggi se ne vanno, ma verso cosa? verso l'ignoto. Davanti a loro c'è il vuoto, la mancanza di un futuro; e questo perché la loro esperienza del mondo è stata sterile: in essa non c'è nessun significato da apprendere, nessun fine da raggiungere.

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