2. I racconti di Cechov: il mistero del male
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Forse molti critici sostengono che Cechov esprima una visione cupa della vita perché nelle sue opere i problemi non vengono risolti e il dolore prevale.
Il fatto è che l’uomo può scegliere il male e fare del male agli altri. In genere sembra che non lo faccia proprio coscientemente, ma come accecato da qualcosa, qualcosa che lo spinge a compiere atti di cui si pentirà, o a non fare ciò che invece dovrebbe. Ognuno potrebbe chiedersi:
cos’era quella nebbia che distoglieva dagli occhi le cose più importanti…?
Per tornare al racconto L’onomastico, da cui abbiamo preso le mosse, Ol’ga Michajlovna alimenta in sé, nel corso della giornata, risentimento e gelosia nei confronti del marito, pur sapendo che potrebbe facilmente passare sopra alle questioni che la angustiano. Entrambi i coniugi, nella discussione che hanno durante la notte, lasciano prevalere l’orgoglio; la donna ha una forte crisi isterica e perde il bambino. Alcuni particolari di relativa importanza hanno così il sopravvento sull’amore reciproco e su quell’esserino che dovrebbe nascere.
Molti sono i motivi che impediscono all’uomo di essere quello che potrebbe, di sviluppare le potenzialità positive che pure possiede; alcuni causano addirittura il suo abbrutimento.
C’è una caratteristica dell’uomo russo che in modo ricorrente viene bersagliata in molte opere letterarie: la pigrizia. Essa, secondo Cechov, trova giustificazione e alimento anche nel pensiero alla moda, una sorta di nichilismo e di relativismo morale:
Allora, alla fine degli anni Settanta, esso cominciava a divenire di moda tra la gente e poi, all’inizio degli anni Ottanta, cominciò gradualmente a passare dalla gente alla letteratura, alla scienza e alla politica. A quel tempo non avevo più di venticinque anni, ma sapevo già perfettamente che la vita è inutile e non ha alcun senso, che tutto è inganno e illusione, che in sostanza e nei suoi risultati la vita in galera nell’isola di Sachalin non differiva affatto dalla vita a Nizza, che la differenza tra il cervello di Kant e il cervello di una mosca non ha un significato sostanziale, che nessuno a questo mondo è innocente o colpevole, che sono tutte sciocchezze e inezie, e che vada tutto al diavolo!
Se tutto è inutile e senza senso, allora tanto vale non fare nulla: fare il bene, fare il male o non fare niente hanno lo stesso valore. E questa è un’ottima scusa per l’egoismo e l’inazione.
Le ideologie e le cause astratte (come lavorare per il bene dell’umanità), pur vissute con le migliori intenzioni, possono indurre l’uomo, tutto preso a guardare i propri ideali, a non vedere le persone che ha più vicino, finendo per calpestarle. Anche la pretesa di essere un artista (La salterellona) o una persona superiore (La principessa) può generare una sorta di cecità morale. L’eccessiva paura dei rapporti e la chiusura in se stessi (L’uomo nell’astuccio) impediscono di vivere; l’avidità o la passione o la tentazione di lasciarsi andare alla deriva possono causare la rovina.
Nel burrone
In Nel burrone il male si presenta come un abisso. Il titolo non è scelto a caso.
Il paese di Ukléevo era in un burrone, tanto che dalla strada e dalla stazione della ferrovia si vedevano solo il campanile e le ciminiere delle fabbriche di cinz stampato. (…)
Qui la febbre non passava mai e c’era fango appiccicoso anche d’estate (…). Qui c’era sempre odore di rifiuti di fabbrica e di acido acetico, che veniva usato per la lavorazione del cinz. Le fabbriche – tre di cinz e una conceria – non si trovavano proprio in paese, ma all’estremità e a una certa distanza. (…) Per via della conceria l’acqua del fiume spesso era fetida; i liquami appestavano l’erba, il bestiame soffriva di setticemia carbonchiosa, e alla fabbrica era stato intimato di chiudere. Veniva considerata chiusa, ma funzionava in segreto con la compiacenza della guardia locale e del medico provinciale, ai quali il proprietario pagava dieci rubli al mese.
In questo paese squallido, in cui dominano la corruzione e l’imbroglio, uno degli imbroglioni più ricchi è Grigorij Petrov Cybùkin, vedovo, padrone di una drogheria che è solo una facciata per molti altri traffici illeciti.
Suo figlio maggiore, Anìsim, è un tipo ambiguo, lavora nella polizia ed è a casa raramente; il minore, Stepàn, aiuta il padre, ma è sordo e stupido. Sua moglie Aksìn’ja, una donna bella, molto attiva e abile, si rivelerà feroce e verrà sempre paragonata a una serpe e una vipera.
Anche Grigorij si sposa e la seconda moglie, Varvàra Nikolàevna, anch’essa bella e attiva, ha l’abitudine di aiutare i poveri: ha un animo buono, ma non fa nulla per opporsi al male.
Per sposare Anìsim viene scelta Lipa, una ragazza del paese vicino. Lei e la madre, completamente sprovvedute, possono assomigliare agli “innocenti” della tradizione:
erano nate misere ed erano pronte a vivere così fino alla fine, dando agli altri tutto, tranne la loro anima spaventata, mansueta.
Quando, alcuni giorni dopo il matrimonio, Anìsim si accinge a ripartire per la città in cui lavora, ha una conversazione con Varvàra di sapore dostoevskiano sul rapporto tra fede e morale (“se Dio non c’è, tutto è lecito”, scriveva Dostoevskij); essa si svolge però quasi sottovoce, senza toni drammatici. La donna si lamenta che la famiglia fa troppi imbrogli e soprusi alla gente, ma un giorno ci sarà il giudizio di Dio. Anìsim le risponde come il padre: «ognuno ha la sua missione» (cioè i Cybùkin hanno il compito di fare affari, in qualunque modo) e all’altro mondo nessuno se ne interesserà,
«perché, tanto, Dio non c’è, mammina. Cosa volete che si metta a fare distinzioni! (…). Può anche darsi che Dio ci sia, ma la fede no. (…) E come faccio a saperlo, se Dio esiste o no? A noi da piccoli non ce l’hanno insegnato, e il bimbo succhia ancora il latte dalla mamma e gli insegnano solo una cosa: ognuno ha la sua missione. Neanche papino crede in Dio. (…) Io la penso così, mammina, che tutti i problemi vengono dal fatto che la gente ha poca coscienza. (…) Così te ne vai in giro tutto il giorno e non vedi nemmeno una persona che abbia coscienza. E tutta la causa è che non sanno se Dio esiste o no.»
Molto diverso è il modo di vedere di Lipa e di sua madre:
a loro sembrava che qualcuno le guardasse dall’alto del cielo, dall’azzurro, di là dove sono le stelle, vedesse tutto quello che succede a Ukléevo, facesse la guardia. E per quanto fosse grande il male, la notte è lo stesso tranquilla e meravigliosa, e nella pace di Dio c’è lo stesso e ci sarà la verità, altrettanto tranquilla e meravigliosa, e al mondo tutto aspetta di confondersi con la verità, come la luce della luna si confonde con la notte.
Anìsim viene accusato di essere un falsario, processato, condannato e inviato ai lavori forzati. Nel frattempo sua moglie ha un bambino, e per tutto il giorno lo contempla con stupore e lo accudisce.
Il vecchio, indebolito dal dispiacere per le vicende del primogenito, si affeziona al nipotino e decide di intestargli le terre che possiede. Aksìn’ja, venuta a conoscenza del testamento, diventa una belva: urla, minaccia i suoceri di andarsene, poi raggiunge in cucina Lipa che sta facendo il bucato e versa l’acqua bollente sul bambino.
Questi, portato all’ospedale, muore e Lipa lo riporta a casa avvolto in un lenzuolo.
È ormai notte, per un tratto di strada un vecchio accompagna la donna sul suo carretto e tra i due si svolge un colloquio che ricorda le domande di Dostoevskij sul problema del dolore innocente. I fatti sono tragici e non hanno una risposta soddisfacente, ma Cechov sviluppa la questione con la consueta, pacata dolcezza. Lipa dunque domanda:
«…perché un bambino prima della morte deve soffrire? Quando deve soffrire un grande, un mužik o una donna, gli vengono perdonati i peccati, ma perché a un bambino, che di peccati non ne ha? perché?»
«Ma chi lo sa?» rispose il vecchio.
Viaggiarono in silenzio per mezz’ora.
«Tutto non si può sapere, perché e come» disse il vecchio. «All’uccello sono date non quattro ali, ma due, perché anche con due si è capaci di volare; così anche all’uomo è dato di sapere non tutto, ma solo la metà o un quarto. Quello che deve sapere per vivere, quello lo sa. (…)
Il tuo dolore non è un dolore così grande. La vita è lunga, avrai ancora del bene e del male, avrai di tutto. (…)[A me] è successo del male e del bene. Di morire non ne ho voglia, cara, una ventina d’anni li vivrei ancora; quindi di bene ce n’è stato di più. Ed è grande la madre Russia!».
Cacciata dalla cognata, senza che nessuno intervenga in suo favore, la mattina dopo Lipa torna a casa sua.
Tre anni dopo, Aksìn’ja è diventata praticamente la padrona, Grigòrij è invecchiato e come istupidito, vaga per le strade dimenticandosi addirittura di mangiare; in paese si mormora che sia maltrattato dalla nuora e viva praticamente di carità.
Una sera una piccola folla di braccianti, con Lìpa e Praskòv’ja, torna dal lavoro chiacchierando e cantando. Passando accanto a Grigòrij, sulla strada, tutti fanno silenzio, imbarazzati, ma Lipa si inchina profondamente e saluta il vecchio.
Anche la madre salutò. Il vecchio si fermò e, senza dire nulla, le guardò entrambe; gli tremavano le labbra e aveva gli occhi pieni di lacrime. Lìpa prese dal fagotto della madre un pezzo di torta con il semolino e glielo porse. Lui lo prese e si mise a mangiare.
Il sole era ormai del tutto tramontato; il suo bagliore si era spento anche in alto sulla strada. Si faceva buio e freddo. Lìpa e Praskòv’ja proseguirono e poi per un pezzo si fecero il segno della croce.
Perché dunque succedono certe cose, perché l’uomo sceglie il male, perché può volere non vedere quello che è sotto i suoi stessi occhi? perché, in altri termini, fatto a immagine di Dio, può offuscare e soffocare questa somiglianza?
«Quali fatidiche, diaboliche cause hanno impedito alla vostra vita di sbocciare rigogliosa come un fiore primaverile, perché voi … vi siete affrettato a scrollarvi di dosso l’immagine e la somiglianza divina e vi siete trasformato in una bestia codarda…?». [1]
Cechov vede benissimo che certi mali sono sociali, derivano da un cattivo funzionamento delle istituzioni e da piaghe antichissime (l’ignoranza dei contadini, l’inerzia dei proprietari terrieri, la corruzione dei funzionari, ecc.), ma la sua attenzione si appunta principalmente sulle vicende dei singoli, come si può ben vedere ne La corsia n.6, in cui la questione centrale non è, come può sembrare, la “malasanità”, ma l’atteggiamento dell’individuo che decide di guardare – o far finta di non vedere – la situazione in cui vive, di fare veramente il proprio dovere o quello che gli fa comodo.
È nella vita del singolo che si decide per il male o per il bene; pur con tutti i condizionamenti storici, culturali e sociali, è nella libertà della persona che può cominciare qualcosa di nuovo.
Note
[1] A. Cechov, Racconto di un uomo in incognito, traduzione di Bruno Osimo, op. cit., p.803.