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Tolkien: intervista a Carlo Stagnaro

Autore:
Massignan, Marco
di Marco Massignan *

Tra l’universalmente sempre valido e la particolarità della congiuntura storica, John Ronald Reuel Tolkien - “l’autore del secolo” secondo Tom Shippey -, attraverso (e grazie) il linguaggio epico-favolistico, è uno tra i pochi romanzieri ancora in grado di toccare il cuore dell’uomo contemporaneo, proponendo al lettore attento diagnosi e terapia. Ne ho parlato con Carlo Stagnaro, direttore del dipartimento “Ecologia di mercato” dell’Istituto Bruno Leoni, esperto ed appassionato dell’opera tolkieniana ed autore (con Alberto Mingardi) del libro “La verità su Tolkien” (edizioni Liberal).

1) Il destino di ogni grande autore sembra quello di venire travisato o di subire numerosi tentativi di appropriazione indebita: e Tolkien non fa eccezione. È possibile - a tuo avviso - mettere in rilievo le caratteristiche e le motivazioni fondamentali che hanno animato l’opera del filologo di Oxford?

Penso che Tolkien abbia impugnato la penna - o meglio, ha messo le mani sulla macchina da scrivere - soprattutto grazie alla sua fede. Per lui il più importante attributo di Dio è il suo essere “Creatore”: e l’uomo, creato a sua immagine e somiglianza, non può reprimere la sua aspirazione a essere “subcreatore”. Credo che ci sia un che di autobiografico nella vicenda di Aule, l’“angelo” che, nel “Silmarillion”, costruisce (non crea) i Nani. Quando Eru (Dio) gliene chiede conto, facendogli notare che solo lui, Eru, poteva mettere nel cuore di una creatura il fuoco della vita, Aule si giustifica così: “Desideravo cose diverse da me, da amare e ammaestrare, sì che anch’esse potessero percepire la bellezza di Ea, da te prodotta... E nella mia pazienza, sono caduto preda della follia. Ma la creazione di cose è, nel mio cuore, frutto della creazione di me per opera tua; e il figlio di torpida mente che riduce a balocco le imprese di suo padre può farlo senza intenti derisori, ma solo perché è figlio di suo padre”. Ecco, Tolkien è (consapevolmente) caduto preda della stessa follia: quella di scrivere una favola che fosse un riflesso della favola più grandiosa mai scritta, quella tessuta da Dio.

2) Nel 1961, il critico dell’“Observer” Philip Toynbee aveva proclamato la fine di ogni interesse per “Il Signore degli Anelli”. Sappiamo poi com’è andata. Tuttavia Tolkien è stato vistosamente ignorato dalla critica: che ruolo ha avuto, a tuo avviso, il fatto di essersi dedicato completamente al genere narrativo epico trascurando la tradizione del romanzo “realistico” e “psicologico”?

Tolkien non ha scritto per la critica: ha scritto per sé e i suoi figli. Questo, a mio avviso, spiega sia il grande successo di pubblico, sia la scarsa attenzione (è un eufemismo) della critica ufficiale.

3) Nel “Signore degli Anelli” la vittoria contro le forze del male non dipende dalle armi, ma è di carattere spirituale (mistico, oserei dire). La salvezza, più che dal potere militare e tecnologico, viene dalla “via crucis” solitaria di un hobbit inerme: la follia della debolezza - decidere di disfarsi dell’Anello - si rivela la mossa vincente. Quali riflessioni possiamo trarne?

Domanda da cento milioni di dollari - e bisognerebbe rispondere scrivendo un libro! Credo comunque che la lezione principale sia che le armi possono determinare la vittoria in una battaglia, perfino in una guerra, contro forze umane. Ma non è con le armi che si risolve “la” battaglia, quella tutta interiore tra bene e male. In questo Tolkien è un realista: non pretende che vi siano individui buoni e malvagi. Sa bene che in ogni individuo c’è un insondabile misto di bene e di male. Sa che l’unica via d’uscita è aggrapparsi alla Grazia o, meglio, abbandonarsi alla Grazia. È nel fiducioso abbandono alla Provvidenza che Frodo compie la sua missione. Attenzione: la missione di Frodo non era distruggere l’Anello. Su questo Gandalf (e attraverso di lui Tolkien) è chiarissimo: nessuno è tenuto a fare cose impossibili. Frodo doveva fare tutto quanto in suo potere per creare le condizioni affinché l’Anello fosse distrutto. Ma quel gesto immane era possibile solo alla Provvidenza. Che non agisce mai gratis: il prezzo della vittoria di Frodo è la pietà da lui dimostrata verso Gollum, è la fiduciosa accettazione del suo Destino, è la sua abnegazione nel perseguire una missione folle che porta avanti mosso non dal risentimento, dall’orgoglio o dalla vendetta, ma dall’amore e dalla fede.

4) Tolkien scrive: “Io non sono democratico, solo perché l’umiltà e l’uguaglianza sono principi spirituali corrotti dal tentativo di meccanizzarli e formalizzarli, con il risultato che non si ottengono piccolezza e umiltà universali, ma grandezza e orgoglio universali, finché qualche orco non riesce a impossessarsi di un anello di potere, per cui noi otteniamo e otterremo solo di finire in schiavitù”. Anche alla luce di queste parole è possibile delineare alcuni tratti peculiari del “Tolkien politico”?

Tolkien amava definirsi un “conservatore vecchio stile”. Aveva in uggia la democrazia perché era conscio del peccato universale. Sapeva che nessun uomo può resistere all’Anello, e in questo la democrazia ha due difetti. Primo, sembra fatta più per Boromir (e Saruman) che per Faramir (e Gandalf). Re si nasce, presidenti si diventa. Secondo, in democrazia il popolo ha la sensazione di governare: chiunque può virtualmente raggiungere l’Anello. Quindi tutti sono disposti a subire assai più che sotto altri regimi politici.

5) La letteratura di Tolkien mira a ricreare la bellezza e l’incanto in ogni coscienza, è un antidoto contro l’autodepressione dell’io, contro ogni cinismo beffardo e autosvalutativo (pensiamo anche ai valori e alle qualità di cui sono portatori i suoi personaggi). Quale lezione può offrire all’attuale tramonto dell’Occidente?

Probabilmente a Tolkien non sarebbe piaciuta questa espressione. Lui pensava a se stesso come “sempre sconfitto e mai sottomesso”. Sapeva bene che, nel breve termine, tutto è in mano agli uomini. E quando tutto è in mano agli uomini, la tentazione è sempre in agguato. Ma nel lungo termine è tutto un altro paio di maniche: tutto quel che accade, visto “sub specie aeternitatis”, ad intonare la melodia portante è la Provvidenza. L’Occidente, inteso come sinonimo di civiltà cristiana, può essere a un passo dal tramonto. Ma anche quando il sole scenderà e la terra sarà coperta dalle ombre, sarà solo per prepararla a un’alba ancor più radiosa e splendente.

* Marco Massignan è nato ad Arzignano (VI), il 26 dicembre 1983. Studia filosofia all’università di Verona. Tra i suoi interessi l’apologetica, la teologia e la metafisica, nonché tutti quegli ambiti connessi in vario modo alla Chiesa e alla sua tradizione. In particolare, sta approfondendo il pensiero e l’opera del filosofo luganese Romano Amerio.