Federigo Tozzi: violenza e desiderio di redenzione 7 - Il podere 1
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Anche Il podere si presenta come la rielaborazione di uno spunto autobiografico, come ci attestano le lettere di Novale. All’inizio del romanzo, l’impiegato Remigio Selmi, il giovane protagonista, viene chiamato al capezzale del padre morente, un proprietario terriero con cui ha da tempo rapporti burrascosi; al giovane spetterebbe l’eredità, ma questa gli viene subito contesa dall’amante del padre e dalla matrigna. Remigio, timido e inesperto, appare subito spaesato nel nuovo mondo, incapace di gestire la situazione; fin dall’inizio, si direbbe a priori, subisce l’ostilità dei contadini, che non gli dimostrano né stima né simpatia. Inizia una logorante trafila di avvocati e sensali, prestiti e cambiali. Remigio è un déraciné; evita di “incontrarsi con i sottoposti; non sapeva né meno riconoscerli l’uno dall’altro e, per timidezza, voleva sorvegliarli di nascosto…non sapeva che fare; si sentiva solo troppo e senza denari”. (1) Inutili i suoi tentativi di costruire delle relazioni significative: Remigio, estraneo a tutti “si sentì pieno d’ombra come la campagna. Guardò il podere, giù lungo la Tressa; e dove c’era già buio; e gli parve che la morte fosse lì; che poteva venire fino a lui, come il vento che faceva cigolare i cipressi”. E poco oltre, visualizzando il suo incubo: “Tutta la sua vita sembrava chiusa dentro un sacco, da cui non c’era modo di metter fuori la testa”. Immagine davvero folgorante, emblema della narrativa tozziana e di larga parte della letteratura del Novecento, apparsa ad Antonio Socci, in un recente intervento dedicato alla Maestà del grande pittore senese Duccio di Buoninsegna, rappresentativa della novecentesca città dei morti, cieca di fronte alla bellezza. (2)
Nell’ideale galleria di personaggi tozziani, Remigio è il fratello maggiore di Pietro, come lui segnato dalla “cronica inabilità del soggetto alla vita ‘normale’, la malattia della cecità”. (3)
Nella natura compaiono segni di morte: “Un uccello nero svolazzava sopra la casa; senza avvicinarcisi mai. Un calabrone, con le ali di un nero luccicante e turchino, cadde nell’acqua; facendo lo stesso rumore di una pietruzza; una delle anatre accorse nuotando e lo inghiottì; poi scosse il becco goccioloso. Egli pensò, come se sognasse: ‘Sono giovane!’”. L’ammissione di “giovinezza” equivale qui all’inettitudine del protagonista e appare come lo specchio rovesciato della “senilità” sveviana; si tratta di “giovani-vecchi”, amaramente consapevoli della propria estraneità. Compare nel romanzo una figura che si rivelerà decisiva, quella del rivale, il contadino Berto: inquieto e torvo, animato da un odio feroce, mai chiarito fino in fondo, nei confronti di Remigio. Si presenta depositario di una visione del mondo cupa e pessimista, non lontana ideologicamente da quella del verghiano Rosso Malpelo, come la critica ha sottolineato. Ecco un passaggio significativo di questo cupio dissolvi: “qualche volta, vorrei entrare sotto terra; giù in fondo, più sotto dei lombrichi…vorrei sapere perché sono venuto al mondo e che cosa ci ho fatto! Non era lo stesso anche se non nascevo?”.
Intanto la situazione economica si fa sempre più grave: il podere è sommerso dai debiti; Giulia, l’amante del padre, intenta una causa a Remigio per l’eredità e la vince. Il protagonista “ormai trovavasi di fronte alle cose, come una inimicizia. Anche il suo podere era un nemico; e sentiva che perfino le viti e il grano si farebbero amare soltanto se egli impedisse a qualunque altro di diventarne il proprietario. La casa stessa gli era ostile: bastava guardare gli spigoli delle cantonate. Se non aveva l’animo di distruggerla e di ricostruirla, anche la casa non ce lo voleva. Da tutto, la dolcezza era sparita”.
Scoppia un incendio nel podere, che si rivelerà doloso, ma anche di questo Remigio si sente colpevole; egli sente il gallo cantare ed “ebbe paura di non essere più a tempo a ricominciare la vita con tutti gli altri uomini”. Tormentato dal senso di inappartenenza, l’uomo desidera solo fuggire o nascondersi. “Gli pareva di potersi nascondere in mezzo al podere; e di non farsi mai più guardare da nessuno”, afferma, con una significativa convergenza con le parole del rivale Berto. (4)
NOTE
1. Si cita da F. Tozzi, Il podere, BUR, Milano 1983, introduzione di M. Ciccuto.
2. A. Socci, Prefazione a M. Carlotti, Figlia del tuo figlio, La Maestà di Duccio di Buoninsegna, Società Editrice Fiorentina, Firenze, 2005, p.5.
3. M. Ciccuto, Introduzione a Il podere, cit., p.8.
4. Le convergenze tra i due personaggi sono state messe in luce da A. Rossi, Modelli e scrittura di un romanzo tozziano: Il podere, Liviana, Padova 1972.