Quando una figlia si sposa: il “tragico” resoconto di papà Guareschi
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Giovanni Guareschi è il più grande tra i narratori umoristi del Novecento: la sua storia personale continua a impedire che gli venga giustamente riconosciuto non solo di essere un magnifico scrittore, ma soprattutto uno straordinario inventore di situazioni comiche, osservatore della quotidianità, della normalità, che lui era capace di rendere epica.
Chi li ha incontrati nelle sue letture non può dimenticare Margherita, l’ingenua moglie di Giovannino, filosofica compagna di una vita intera; o la Giò, improbabile governante, ultima erede di una schiera di donne di casa che trova il proprio capostipite nella Perpetua dei Promessi Sposi; così come indimenticabili sono i figli di Guareschi, la Pasionaria e Albertino, e poi i nipoti, Michelone e la Fenomena. Certo sono diventati più famosi Peppone e Don Camillo, ma la saga autobiografica che vede protagonista la sua famiglia non è seconda al più celebre “Mondo piccolo”. Raccolti in “Vita in famiglia” e nello “Zibaldino”, questi racconti descrivono spaccati della società italiana negli anni del boom economico, con le rapide trasformazioni sociali e morali, il progresso inarrestabile, il tutto condito con quell’ironia caratteristica di Guareschi e la bonarietà di chi guarda con disincanto a sé stesso e alla propria famiglia prima che alla società, alla moda, ai costumi.
In uno di questi racconti, Guareschi ha saputo fissare le emozioni e le reazioni più tipiche di un padre nel momento in cui la figlia celebra il proprio matrimonio, così sancendo la definitiva separazione dalla famiglia d’origine; Giovannino non si è limitato a questo, però, ha voluto anche raccontare sé stesso scrittore e umorista. Leggere questo racconto, se si sono vissute vicende simili, è come rivedersi in quei momenti, così unici nella vita di un padre e di una famiglia; è anche riflettere sulla natura e sulle ragioni profonde dell’amore umano, imparando a sorridere delle proprie debolezze e vanità. In questo caso, poi, la lettura regala la possibilità di entrare nella stanza dello scrittore Guareschi, nel suo laboratorio narrativo, per scoprirne i segreti del mestiere, accompagnati dal suo inesauribile umorismo, con cui guarda alle sue capacità, ai suoi personaggi, alle sue difficoltà di fronte alla loro pirandelliana fuga verso il flusso della vita reale.
E se è vero che, almeno per ora, la Costituzione italiana continua a recitare che “la famiglia...”, Guareschi ci ricorda che compito della famiglia è sostenere la formazione di altre famiglie, dare ai propri figli la capacità di camminare da soli. In fondo, l’atto di generare – dello scrittore, come del genitore – accomuna scrittore e genitore e, sembrerebbe dirci Guareschi, non possiamo scrittori e genitori sorprenderci che un giorno, prima o poi, figli e personaggi finiscano col camminare da soli. Proprio questo è il segno di essere stati bravi scrittori, bravi genitori... Il che è bello e istruttivo.
Oggi la comicità è volgare e sguaiata, pessima erede di quell’ italum acetum che Orazio ricordava caratteristico dei fescennini e dell’atellana osca. Eppure c’è stata una generazione di umoristi straordinari che nel dopoguerra ha saputo raccontare la società italiana colta, sorpresa e anche un po’ ammirata del boom economico. Quegli scrittori, perché tali erano, l’hanno rappresentata, con ironia e affetto, quasi incapace di adattarsi ai cambiamenti che rapidi si susseguivano, creando personaggi indimenticabili, nel tempo elevati a mito, immaginario collettivo: il non sense assurto a regola di comportamento del signor Veneranda, la verve comica dei personaggi di Achille Campanile, la “candida” saga di Peppone e don Camillo, e da ultimo il tragico binomio Fantozzi-Fracchia, quando ormai alla parola scritta veniva sempre più sostituendosi l’immagine televisiva. Una lunga stagione durata per quasi tutto il Novecento che non ha lasciato eredi: per trovarli occorre cercare nella migliore produzione di Stefano Benni e in qualche raro esempio di Baricco. Per il resto, l’ultimo Novecento – che si guardi alla trasgressione di Aldo Busi, o agli eccessi verbali e narrativi dei cosiddetti “giovani cannibali” – ha offerto più che altro scandalo, provocazione, sottoponendo la meraviglia del riso e del sorriso alla tirannia del cinismo e della satira urlata e sguaiata. Spesso si è trattato di talento sprecato, in qualche caso di vera e propria gratuita volgarità.
Penso che l’incapacità di cogliere il lato umoristico delle vicende della vita quotidiana sia direttamente collegata con la perdita del senso di realtà, così caratteristico della nostra società. Per guardare l’esistenza quotidiana con occhi “buoni”, occorre infatti sperimentare in prima persona quella stessa vita: il realismo nello sguardo nasce dal realismo vissuto.
Ecco perché non ci sarà padre in procinto di condurre all’altare la propria figlia che non si riconoscerà in un cammeo di Giovanni Guareschi, nel quale il creatore del Mondo Piccolo racconta la campale giornata del matrimonio della sua celeberrima Pasionaria. Dopo una breve introduzione metanarrativa dove Guareschi, facendosi critico di sé stesso, analizza il suo modo di essere scrittore, il racconto comincia
“Vi dirò dunque che quando mi trovai improvvisamente al fianco la Pasionaria tutta addobbata di bianco, io non mi emozionai eccessivamente. Anche quando m’inoltrai nella chiesa ero tranquillo perché ricordavo il giorno lontanissimo della mia rivoluzione d’ottobre, quando accompagnai per la prima volta a scuola la Pasionaria”.
A questo punto Guareschi interrompe la fabula e, riandando con un sapiente, meraviglioso, divertentissimo flashback, indietro di vent’anni, racconta al lettore appunto il giorno in cui “la Pasionaria sarebbe uscita dalla mia vita per entrare nella vita dello Stato”. Chi di noi padri non ricorda quella spiacevole sensazione: l’autorità ci stava esautorando dal ruolo, che fino ad allora era stato solo nostro, di aprire gli occhi di nostra figlia alla realtà, al sapere, alle virtù. Quale turbamento la prima volta che abbiamo ascoltato la terribile frase: “l’ha detto la maestra”. Ecco, per tutti quelli che hanno vissuto così il primo giorno di scuola della loro figlia (ché con il figlio maschio la cosa, almeno per il padre, è diversa, c’è poco da dire), scoprire quel che Giovannino decise quel giorno sarà come una fantastica rivincita sullo Stato: anch’io – penserà quel padre, leggendo – anch’io avrei dovuto fare così, e si riconoscerà con gioia nel Giovannino ribelle che conduce la figli in taxi all’Idroscalo.
“Era se non sbaglio l’ottobre del 1949 e io, mentre m’inoltravo nella chiesa dando il braccio alla Pasionaria, verso l’altare carico di variopinti fiori di campo e di ancora giovani spighe di frumento, ripensavo a quel giorno lontano e il mio vecchio cuore era ancora pieno di speranza”.
E non ci sarà padre che sia andato all’altare che non si riconoscerà nei pensieri di Giovannino, il ribelle, una volta condotta la figlia all’altare. Non voglio dire che abbiamo pensato proprio così, quel giorno, perché altrimenti Guareschi qualche erede l’avrebbe ancora, no non è questo: la cosa straordinaria è sentire adesso, leggendo ora questi pensieri, che allora noi stavamo proprio pensando così:
“Non mi eccitai quindi quando vidi la giovinetta inginocchiata davanti all’altare assieme al tizio il cui nome figurava nelle partecipazioni di nozze a lato di quello della Pasionaria. Non mi preoccupai nemmeno quando il parroco domandò al giovanotto se gli andava di sposare la Pasionaria...”.
Certo che gli andava, come gli andava al Tizio che ha sposato nostra figlia: chiunque avrebbe risposto di sì. E’ così per tutti i padri: la fatica di educare una figlia non si può descrivere, occorre provarla. E quando questa figlia, così bella, così pura e virtuosa, così piena di tutti i buoni sentimenti, ti porta in casa un ragazzo, a te padre – questo ragazzo – non pare mai abbastanza degno: di solito, anzi, è anche un po’ bruttino...
Da qui in poi la comicità del racconto si fa parossistica per la straordinaria capacità di Guareschi di mescolare realtà e finzione letteraria, ricordi della sua vita famigliare e citazioni delle sue opere letterarie: prima spera nel parroco, poi in Fernandel e Gino Cervi, quindi in Peppone e don Camillo, ma alla fine deve rassegnarsi al sì della Pasionaria, forse detto per colpa dell’emozione, con il suggello di questo epico, incontestabile commento della moglie Margherita: “Anche a me è capitato così”.
E la scena finale è uno spasso: Guareschi insegue i due giovani sposi con la Vespa, li raggiunge, chiama la Pasionaria e le suggerisce di andare con lui, ma lei gli comunica che ormai è sposata. “La legge ti vieta di abbandonare il tetto coniugale, non l’auto coniugale”. Qui, ognuno di noi padri di figlie belle e straordinarie applaude a Giovannino, ma anche questa straordinaria trovata non impedisce la partenza sulla berlina, per giunta scoperta e dunque di fatto parte del tetto coniugale. A questo punto Giovannino è costretto a comunicare alla moglie che non c’è più niente da fare: “Margherita incomincio a sospettare che nostra figlia si sia sposata irreparabilmente”. E questo irreparabilmente ha una forza ironica incontenibile, che viene dalla verità che esso comunica e che tutti i padri hanno vissuto sulla propria pelle. Come la chiusa, nuovamente metanarrativa, del racconto in cui Guareschi confida al lettore che è “triste la storia di uno scrittorello rimasto con uno solo dei suoi... sei personaggi. Per giunta nonna, e con le nonne, si sa, non si può scherzare”.
Del resto la vis comica di Guareschi, capace di addolcire perfino la prigionia nei campi di concentramento (1), nella vita coniugale ha trovato un terreno fertilissimo di caleidoscopiche ed esplosive trovate come dimostra l’aforisma che conclude “Il marito in collegio”, che suggerisco ai lettori di CulturaCattolica, a quelli già sposati, ma soprattutto a quelli più giovani e ancora a rischio di matrimonio: “Ed ecco finita la nostra storia. E’ una storia un po’ strampalata che forse vi sarà piaciuta e forse no, ma che ha un contenuto quanto mai umano. Essa dimostra che l’amore è una forza formidabile e che quando un uomo e una donna si vogliono bene, finiscono sempre con lo sposarsi anche se per avventura sono già marito e moglie”. (2)
NOTE
1. G. GUARESCHI, Diario clandestino, Superbur, Rizzoli.
2. G. GUARESCHI, Il marito in collegio, BUR.
(per gentile concessione di Studi Cattolici)
Illustrazioni di Chiara Ciceri