"La boutique del mistero" 6 - Il colombre
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“Il colombre” è forse il racconto più noto di Dino Buzzati. Pubblicato per la prima volta nel 1966, venne poi inserito nella “Boutique” come eloquente metafora dell’insopprimibile desiderio di verità insito nel cuore dell’uomo, ma anche dell’aspetto ambivalente che il segno offerto dal destino può assumere, fino ad essere facilmente scambiato per nemico da evitare invece che come tesoro da conquistare.
Stefano Roi, protagonista del “Colombre”, vive dunque tutta la vita nell’angoscia di esser stato in qualche modo segnato dal destino: il colombre, un pesce tremendo e misterioso che tutti i marinai temono, l’ha scelto fin da ragazzino come sua vittima e si ostina ad aspettarlo sul mare, incrociando al largo, ma non tanto da non essere scorto da Stefano anche dalla riva, quando egli decide di lasciare il mare per mettersi in salvo da questa persecuzione.
“Stefano rimase là, attonito, col cuore che gli batteva. A distanza di due-trecento metri dal molo, nell'aperto mare, il sinistro pesce andava su e giú, lentamente, ogni tanto sollevando il muso dall'acqua e volgendolo a terra, quasi con ansia guardasse se
Stefano Roi finalmente veniva.
Cosí, l'idea di quella creatura nemica che lo aspettava giorno e notte divenne per Stefano una segreta ossessione. E anche nella lontana città gli capitava di svegliarsi in piena notte con inquietudine. Egli era al sicuro, sí, centinaia di chilometri lo separavano dal colombre. Eppure egli sapeva che, di là dalle montagne, di là dai boschi, di là dalle pianure, lo squalo era ad aspettarlo. E, si fosse egli trasferito pure nel piú remoto
continente, ancora il colombre si sarebbe appostato nello specchio di mare piú vicino, con l'inesorabile ostinazione che hanno gli strumenti del fato.”
Completamente soggiogato però dalla forza di questo miraggio funesto ma affascinante, alla fine il protagonista accetta la sfida del nemico, rinunciando alla vita confortevole e priva di pericolo della terraferma.
“Stefano si era ormai fatto la sua vita, ciononostante il pensiero del colombre lo assillava come un funesto e insieme affascinante miraggio; e, passando i giorni, anziché svanire, sembrava farsi piú insistente.
Grandi sono le soddisfazioni di una vita laboriosa, agiata e tranquilla, ma ancora piú grande è l'attrazione dell'abisso. Aveva appena ventidue anni Stefano, quando, salutati gli amici della città e licenziatosi dall'impiego, tornò alla città natale e comunicò alla mamma la ferma intenzione di seguire il mestiere paterno.
(…)
E Stefano cominciò a navigare, dando prova di qualità marinare, di resistenza alle fatiche, di animo intrepido. Navigava, navigava, e sulla scia del suo bastimento, di giorno e di notte, con la bonaccia e con la tempesta, arrancava il colombre. Egli sapeva
che quella era la sua maledizione e la sua condanna, ma proprio per questo, forse, non trovava la forza di staccarsene. E nessuno a bordo scorgeva il mostro, tranne lui.
«Non vedete niente da quella parte?» chiedeva di quando in quando ai compagni, indicando la scia. «No, noi non vediamo proprio niente. Perché?» «Non so. Mi pareva...»
«Non avrai mica visto per caso un colombre» facevano quelli, ridendo e toccando ferro.
«Perché ridete? Perché toccate ferro?»
«Perché il colombre è una bestia che non perdona. E se si mettesse a seguire questa nave, vorrebbe dire che uno di noi è perduto.»
Ma Stefano non mollava. La ininterrotta minaccia che lo incalzava pareva anzi moltiplicare la sua volontà, la sua passione per il mare, il suo ardimento nelle ore di lotta e di pericolo".
La grande occasione si presenterà per lui alla fine della vita (come accade al tenente Drogo protagonista del “Deserto dei Tartari”) e sarà una grossa sorpresa:
“Finché, all'improvviso, Stefano un giorno si accorse di essere diventato vecchio, vecchissimo; e nessuno intorno a lui sapeva spiegarsi perché, ricco com’era, non lasciasse finalmente la dannata vita del mare. Vecchio, e amaramente infelice, perché
l’intera esistenza sua era stata spesa in quella specie di pazzesca fuga attraverso i mari, per sfuggire al nemico. Ma piú grande che le gioie di una vita agiata e tranquilla era stata per lui sempre la tentazione dell'abisso.
E una sera, mentre la sua magnifica nave era ancorata al largo del porto dove era nato,si sentì prossimo a morire. Allora chiamò il secondo ufficiale, di cui aveva grande fiducia, e gli ingiunse di non opporsi a ciò che egli stava per fare. L'altro, sull'onore,
promise.
Avuta questa assicurazione, Stefano, al secondo ufficiale che lo ascoltava sgomento, rivelò la storia del colombre, che aveva continuato a inseguirlo per quasi cinquant'anni, inutilmente.
«Mi ha scortato da un capo all'altro del mondo» disse «con una fedeltà che neppure il piú nobile amico avrebbe potuto dimostrare. Adesso io sto per morire. Anche lui, ormai, sarà terribilmente vecchio e stanco. Non posso tradirlo.»
Ciò detto, prese commiato, fece calare in mare un barchino e vi sali, dopo essersi fatto dare un arpione. «Ora gli vado incontro» annunciò. «E’ giusto che non lo deluda. Ma lotterò, con le mie ultime forze.» A stanchi colpi di remi, si allontanò da bordo. Ufficiali e marinai lo videro scomparire laggiú, sul placido mare, avvolto dalle ombre della notte.
C'era in cielo una falce di luna.
Non dovette faticare molto. All'improvviso il muso orribile del colombre emerse di fianco alla barca.
«Eccomi a te, finalmente» disse Stefano. «Adesso, a noi due!» E, raccogliendo le superstiti energie, alzò l'arpione per colpire.
«Uh» mugolò con voce supplichevole il colombre «che lunga strada per trovarti. Anch'io sono distrutto dalla fatica. Quanto mi hai fatto nuotare. E tu fuggivi, fuggivi. E non hai mai capito niente.» «Perché?» fece Stefano, punto sul vivo. «Perché non ti
ho inseguito attraverso il mondo per divorarti, come pensavi. Dal re del mare avevo avuto soltanto l'incarico di consegnarti questo.» E lo squalo trasse fuori la lingua, porgendo al vecchio capitano una piccola sfera fosforescente.
Stefano la prese fra le dita e guardò. Era una perla di grandezza spropositata. E lui riconobbe la famosa Perla del Mare che dà, a chi la possiede, fortuna, potenza, amore, e pace dell'animo. Ma era ormai troppo tardi.
«Ahimè!» disse scuotendo tristemente il capo.
«Come è tutto sbagliato. Io sono riuscito a dannare la mia esistenza: e ho rovinato la tua.»
«Addio, pover'uomo» rispose il colombre. E sprofondò nelle acque nere per sempre.”
Il ‘mistero’ ancora una volta presenta la sua logica diversa da quella umana, ma ormai per Stefano è “troppo tardi…”