Il mio incontro con Carlo Betocchi 2 - "Esiste soltanto il Vangelo, e vivere"
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Sin dagli anni Trenta Betocchi è stato per tutti - per gli amici più prossimi, ma anche per gli scrittori lontani dalla sua orbita di frequentazione, come ad esempio Umberto Saba - un vero compagno di strada capace, con la sua umanità e schiettezza, di testimoniare con semplicità e umiltà la vita cristiana. Per questo era considerato dai tanti amici poeti e scrittori (ma anche da persone comuni) il “maestro di vita” da amare e da rispettare, la guida umana e spirituale di generazioni differenti per età ed estrazione culturale. Il poeta Giorgio Caproni in un incontro avuto successivamente, ha detto: “È un uomo di un’incredibile bontà d’animo, felice quando può rendere felice un altro. Un vero cristiano nel senso più proprio della parola. A me ha dedicato una delle sue più belle poesie: Per Pasqua: auguri a un poeta (pag. 77)”.
Anche Mario Luzi, interrogato sulla particolare amicizia che esisteva tra Betocchi, Bo e lo stesso Luzi, ha confessato: “Sarebbe auspicabile che risultasse questo: che avessimo cioè lasciato lavorare in ciascuno di noi l’unità del messaggio, trovata proprio sul tema che lei dice, della carità. Anche Betocchi ha parlato attraverso la cognizione delle cose, la Realtà vince il sogno, come dice il suo primo libro: la realtà del vivente che è superiore perfino all’ambizione, al sogno, all’assolutezza che i poeti romantici avevano perseguito. È una risposta. Lui ha parlato attraverso le cose della realtà quotidiana; gli oggetti, la semplicità della vita. È stata una grande lezione.”
Negli anni Cinquanta sulle pagine di due riviste “La Chimera” e “Officina”, Betocchi, Pasolini e Luzi, si confrontano in un vivace e appassionato dibattito sul tema della “realtà” e del “realismo” (“la questione del secolo”, secondo la definizione di Mario Luzi): “…Spero non mi abbiate preso per un cripto-comunista…O per un marxista, comunque (magari lo fossi!). La mia posizione è di chi vive un dramma. Sento in me svuotate le ragioni borghesi, e ridotto a puro irrazionale e amore cristiano” (P.P. Pasolini, 26 ottobre 1954).
E Betocchi, in risposta alle sollecitazioni di Pasolini, gli scriverà: “Io non ho cultura, Pasolini mio, io sono un uomo. Tutti i concetti sono cultura, ma con Cristo non esistono concetti. Esiste soltanto il Vangelo, e vivere. La cultura si iscrive nella vita cristiana come una sorella, non come una moglie; ci si salva anche con la cultura, ma per le ragioni della fraternità, non per quelle del diritto, né per quelle della forza. Comunisti e borghesi sono la stessissima cosa. (…) Non ci sono scelte da fare in nessun campo. C’è da essere cristiani nella piena libertà che sconfina da campo a campo. C’è da parlare da cristiani, rifiutando i termini della due parti in conflitto” (Betocchi, 14 novembre 1954).
Nel ’95 Luzi, tornando su quelle vecchie diatribe, ha affermato: “Eravamo entrati in un territorio in cui un po’ tutti ci trovavamo in crisi, perché nessuno aveva una dottrina, salvo Betocchi che allora era pienamente cattolico.(…) Avevamo colto la questione del secolo: quella di dare sostanza alla parola ‘realtà’. Avevamo già presagito più o meno tutti che la realtà non è un dato, né marxista né cattolico. (…) La realtà è da inventare giorno per giorno (…) La risposta di Betocchi è la risposta di un cristiano convinto, di un vero seguace del Vangelo e mi pare che in questo senso sia in una posizione di privilegio rispetto a me e a Pasolini”.
A partire dagli anni del “Frontespizio” Betocchi presenta al pubblico dei lettori le nuove rivelazioni della poesia. Ruolo cui sarà fedele nel corso dei vari decenni. Tra i giovani poeti è forse il caso di citare Giovanni Raboni, scoperto in un concorso di poesia. Sulla “Fiera Letteraria” (21 aprile 1957) Betocchi presenterà la sua prima raccolta poetica con queste parole: “Non ho nulla; proprio nulla da spartire con le poesie del giovane Giovanni Raboni. Eppure la sua poesia mi ha sempre sorpreso, e mi interessa più di tante altre. La cosa dura da quattro o cinque anni; da quando lo conobbi, vincitore del primo premio di poesia ai primissimi Incontri della Gioventù. Allora la grande intelligenza del suo manipolo di versi fu ammirata e premiata anche da Ungaretti.” E conclude: “Una ferita, o che altro non so, gli ha iniettato nel cuore un senso sacro della storia che a volte sembra tradursi altrimenti: in un’alta e ironica malinconia.”
Molti anni dopo, quel poeta, non più giovane, scriverà la prefazione a Tutte le poesie di Carlo Betocchi (Garzanti, 1996). Nelle 12 pagine di intensa e acuta analisi critica egli non indulge ad alcun falso sentimento o comprensibile debolezza: “Nel grandioso impasto di follia e di saggezza del Betocchi estremo (…) c’è ben di più del sospetto o sentore di ‘qualcosa’ di biblico, c’è il prodigio terrificante e magnifico di un’identità che solo una scrittura non profana (stavo per dire non umana) può contenere, l’identità fra il terrore, la raucedine, l’afonia del condannato e la voce tonante del giudice.”
E a un certo punto, Raboni scrive: “Stava scomparendo, stava mutando campo e destino il più grande, forse l’unico grande poeta italiano di questo secolo…”.
La sua conclusione, non lascia dubbi circa il suo giudizio critico (lucido e lapidario) che coincide perfettamente con quello di Carlo Bo (…questa cara figura di poeta, forse del poeta più poeta, del poeta più libero che mi sia stato dato di conoscere e di rispettare...”) e di Mario Luzi (…mio solo umile maestro, o altro…): “Questa poesia grandissima è ancora largamente da scoprire; il posto che, mediamente, le viene assegnato nella gerarchia del Novecento italiano non corrisponde in nessun modo al suo valore.”
Nei mesi in cui stavo lavorando all’antologia mi è giunta una telefonata dalla redazione della collana “I libri dello spirito cristiano” con la quale mi veniva segnalata da parte di Don Giussani una poesia di particolare bellezza e verità, a lui molto cara:
Come mi affliggo! come mi lamento!
Quasi che il mio fosse uno sperso esistere
E Lui non fosse, mentre invece, dentro,
brulico del suo disegno…Sì, ma lascia
che il Nemico ne avvolga la mite, casta
potenza, la cinga del suo vaneggiare
di gioie abbaglianti e presto dirute;
ne spenga in gola il grido celeste,
che si fa lamento. E la mia vita è come
un teatro quando si mutan le scene:
disordine, polvere, uno screanzato gridio,
cui segue un notturno silenzio.