"Il Gattopardo" 6 - "Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi"
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Dopo il Rosario, la famiglia si ritrova per la cena, consumata secondo il cerimoniale prezioso e da secoli sempre uguale nelle nobili casate del Sud, e lo scrittore sottolinea la irreversibile decadenza già in atto, di un’epoca e di una casata nobiliare giunte agli epigoni: il fasto appare sbrecciato come lo stile tutto del Regno delle Due Sicilie, i piatti preziosi, segnati da sigle illustri erano superstiti di servizi disparati, e la splendida tovaglia con coppe donate dal re Ferdinando, è stata in più punti rattoppata.
Il Principe è silenzioso e preda di cupi pensieri e dopo cena, in carrozza, facendosi accompagnare a Palermo dal povero padre Pirrone, si dirige poi nelle zone malfamate della città, da quella Mariannina che ben conosceva le sue improvvise visite a tarda sera.
La mattina successiva irrompe nella sua stanza il nipote Tancredi, amatissimo per la sua baldanza e giovinezza, che ironizza sulle avventure notturne e libertine dello zio e viene a prendere congedo da lui prima di unirsi ai garibaldini rivoluzionari.
Garibaldi infatti è già sbarcato e sta conquistando l’isola. Tancredi ardente e scaltro si unirà ai Mille, convinto dell’inevitabilità della caduta dei Borboni e dei sicuri vantaggi che le nuove classi emergenti trarranno dall’appoggiare i nuovi venuti.
“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” egli dichiara allo zio scettico davanti ai cambiamenti, con questa frase rimasta poi famosa nel patrimonio letterario siciliano.
Don Fabrizio non può credere nel trasformismo indispensabile per conservarsi. Non crede in esso e non vuole cambiare per rimanere qual è. Non mostra di voler occuparsi di politica; e neppure si preoccupa più di tanto di conservare il suo patrimonio depauperato da servitori e amministratori. Preferisce le solitarie battute di caccia, gli studi di astronomia, dove ha ottenuto successi e riconoscimenti.
Guarda con diffidenza la venuta dei Piemontesi che stanno mutando le sorti dell’isola. Egli sa che cadrà il Regno delle Due Sicilie e avverrà l’unificazione, ma non pensa che questo sia un bene per la sua isola.
Ai suoi occhi i ceti nobiliari fedeli ai Borboni conoscono un inarrestabile, lento declino.
I borghesi più scaltri hanno già volto le spalle a Franceschiello e prendono il potere accaparrandosi titoli, beni e terre della Chiesa e degli aristocratici, calpestando valori e tradizioni di un mondo che sta soccombendo e che si vuole eliminare in nome degli interessi rapaci dei nuovi ricchi.
Il resto della popolazione non sa nulla dei Piemontesi e non è stata coinvolta né preparata al loro arrivo e al cambio di governo.
Troppe volte nel corso dei secoli sono stati prospettati ai Siciliani, dalle diverse dominazioni che si sono succedute nell’isola, futuri gloriosi che poi non si sono manifestati, e nulla è mutato nel perenne disinganno per le vane attese e nella connaturata rinunzia all’azione degli isolani.
E questo giudizio del Principe Salina sui possibili esiti di quello che sarà celebrato come il Risorgimento italiano è condiviso dall’Autore che dopo un secolo dall’unificazione vede la sua terra profondamente amata priva di alcun redentore e i suoi abitanti immutati e immutabili.