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"Giobbe" 6 - La malattia del piccolo Menuchim

Fonte:
CulturaCattolica.it

Stiamo affrontando dunque una storia semplice, narrata con i toni del racconto lontano nel tempo e il suo protagonista vive nel mondo dello shtetl, in cui la vita si svolge con ritmi invariabili, comuni alle generazioni precedenti e i valori custoditi dal nucleo famigliare si tramandano di padre in figlio.
Un giorno Deborah, giunta alla fine del nono mese, partorisce il quarto bambino, Menuchim. Otto giorni dopo viene circonciso e sistemato in un cesto penzolante dal soffitto in mezzo alla stanza. Spesso il bimbo inizia a strillare e solo il seno materno sembra per un po’ placarlo. Ma col passare del tempo Menuchim non si comporta come un bambino normale: la grossa testa ciondola pesante, ha scoppi di pianto improvvisi e irrefrenabili, contrae convulsamente i braccini secchi e le gambe storte.
Deborah dice che non è niente, ma il medico che lo vede parla di epilessia, vorrebbe portarlo in ospedale e curarlo, ma Mendel si oppone: non l’avrebbero curato e nutrito come un piccolo ebreo. Preghiera e digiuno saranno le cure migliori per Menuchim.”Non c’è dottore che lo possa guarire, se Dio non vuole“, ripete Mendel.
Ma il bimbo non migliora e il dolore come un vento incessante, caldo e tagliente s’infiltrò nei cuori, leggiamo e il vento accompagnerà nel romanzo gli eventi sconvolgenti, dolorosi o gioiosi che investiranno i protagonisti della storia.
Tutte le energie di Deborah sono accanitamente impegnate dal piccolo: non fa più i mestieri di casa, trascura i ragazzi e non prepara da mangiare. Prega e si impone continui sacrifici. Una mattina solleva il bambino dalla cesta, lo infagotta ben bene, se lo lega sulla schiena e decide di portarlo dal santo rabbi nel villaggio vicino. Di lui dicono cose straordinarie: legge nel cuore, vede il futuro, dà la sua benedizione.
Così Roth descrive l’incontro di Deborah col rabbi:
Voleva farsi largo nella ressa davanti alla porta del rabbi. Con alte grida si gettò sulla folla in attesa, con terribili pugni spingeva da parte i deboli, nessuno poté trattenerla. Chiunque, colpito e scacciato dalla sua mano, si girasse verso di lei per respingerla, restava accecato dalla pena cocente che c’era sul suo viso, sulla bocca rossa spalancata da cui sembrava uscire un alito infocato, dalla luce cristallina delle grosse lacrime colanti, dalle guance che avvampavano, dalle grosse vene azzurre nel collo proteso ove gli urli si concentravano prima di erompere. Come una fiaccola ondeggiante nel vento avanzava Deborah. Con un solo grido stridulo, dietro cui piombò l’orrenda quiete di tutto un mondo morto, Deborah cadde ai piedi della porta, finalmente raggiunta, del rabbi, la maniglia nella destra protesa. Con la sinistra tamburellava sul legno marrone. Menuchim scivolò in terra davanti a lei. Qualcuno aprì la porta. Il rabbi era accanto alla finestra, le voltava le spalle, una riga nera e sottile. D’un tratto si voltò. Lei rimase sulla soglia, con entrambe le braccia tese gli presentò suo figlio, come in atto di offerta. Colse un bagliore sul volto pallido dell’uomo che sembrava tutt’uno con la barba bianca. Si era proposta di fissare il santo negli occhi per convincersi che veramente in essi viveva la bontà che tutto può. Ma ora che stava lì, c’era un lago di lacrime davanti al suo sguardo e lei vedeva l’uomo dietro un’onda bianca d’acqua e sale. Egli levò la mano, le parve di ravvisare due dita magre, strumenti della benedizione. Ma vicinissima udì la voce del rabbi, sebbene questi bisbigliasse appena: «Menuchim, figlio di Mendel, guarirà. Pari a lui non ce ne saranno molti in Israele. Il dolore lo farà saggio, la deformità buono, l’amarezza mite e la malattia forte. I suoi occhi saranno grandi e profondi, le sue orecchie limpide e piene di risonanza. La sua bocca tacerà ma le labbra, quando si apriranno, annunceranno il bene. Non temere e va’ a casa!». «Quando, quando, quando guarirà?» bisbigliò Deborah. «Dopo lunghi anni», disse il rabbi «ma non chiedermi di più, io non ho tempo e non so altro. Non abbandonare tuo figlio, anche se per te è un grosso peso, non disfartene, egli viene fuori da te, così come un bambino sano. Va’!...». Fuori le fecero largo. Le sue guance erano pallide, gli occhi asciutti, le labbra appena socchiuse, come se non respirassero che speranza (pagg. 18, 19, 20).

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