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"Giobbe" 5 - Romanzo di un uomo semplice

Fonte:
CulturaCattolica.it

Giobbe. Romanzo di un uomo semplice
Quest’opera del 1930 occupa una posizione centrale e anomala, come ha precisato Magris, nel percorso narrativo di Joseph Roth.
I romanzi precedenti e successivi al 1932 mettono infatti a tema come abbiamo visto storie di reduci sradicati, di ebrei erranti in terre straniere, l’agonia dell’Impero e il tramonto dei suoi valori.
Ma Roth mostra con Giobbe un improvviso mutamento di direzione: nella tempesta degli eventi della vita egli si volge al mondo ebraico, in particolare agli insediamenti ebraico–orientali stanziatisi nei territori dell’impero austro-ungarico e allo stile di vita condotto nei piccoli villaggi, negli shtetl, dove si viveva nella stretta osservanza delle tradizioni antiche e dove Roth sembra rinvenire una integrità umana e religiosa fondata sul rapporto fra uomo e Dio, capace di resistere alla disintegrazione della persona.

Veniamo al racconto.
Prima parte. Il Protagonista
Il protagonista del romanzo, Mendel Singer è un uomo semplice che così ci viene presentato, con un inizio quasi fiabesco:
Molti anni fa viveva a Zuchnow un uomo che si chiamava Mendel Singer.
Era devoto, timorato di Dio e simile agli altri, un comunissimo ebreo. Esercitava la semplice professione del maestro. Nella sua casa, che consisteva tutta in un’ampia cucina, faceva conoscere la Bibbia ai bambini. Insegnava con onesto zelo e senza vistosi successi. Migliaia e migliaia prima di lui avevano vissuto e insegnato nello stesso modo. Insignificante come la sua esistenza era il suo viso pallido. Una grande barba di un nero simile a quello degli altri lo incorniciava tutto. La bocca era coperta dalla barba.
Gli occhi erano grandi, neri, torpidi e mezzo nascosti da palpebre pesanti. Sulla sua testa stava un berretto nero di reps di seta, una stoffa con la quale si fanno talvolta cravatte fuori moda e a buon mercato. Il corpo era infilato nell’usuale caffettano ebraico di media lunghezza, le cui falde svolazzavano quando Mendel Singer andava svelto per la via e battevano con un colpo d’ala secco e regolare sui gambali degli stivaloni di cuoio. Singer sembrava aver poco tempo e tutte mete urgenti. Certamente la sua vita era una perpetua fatica e alle volte perfino un tormento. Doveva vestire e sfamare una moglie e tre bambini. (Un quarto era in arrivo). Dio aveva concesso fertilità ai suoi lombi, equanimità al suo cuore e povertà alle sue mani. Non avevano oro da pesare, né banconote da contare. Eppure la sua vita continuava a scorrere alla meglio, come un povero piccolo ruscello fra magre sponde. Ogni mattina Mendel ringraziava Dio per il sonno, per il risveglio e il giorno nascente. Quando il sole tramontava, pregava un’altra volta. Quando spuntavano le prime stelle, pregava per la terza volta. E prima di mettersi a dormire, bisbigliava una frettolosa preghiera con labbra stanche ma fervide. Il suo sonno era senza sogni. La sua coscienza era pura. La sua anima era casta. Non aveva da pentirsi di nulla e nulla c’era ch’egli bramasse
. (op. cit., pagg 9,10)

Mendel ha 40 anni, vive in una cittadina della Galizia con la moglie Deborah, e tre bambini: Jonas e Schemarjah e la piccola amatissima Miriam, dai capelli neri e dagli occhi di giovane gazzella.
La vita del protagonista scorre sempre uguale: ai suoi 12 allievi insegna a leggere il Talmud come migliaia di maestri hanno fatto prima di lui, la moglie svolge con alacrità i lavori pesanti, pur continuando a lamentarsi dei sacrifici sopportati per l’inettitudine del marito, i bambini passano il tempo giocando e studiando.
Silenzio, candele accese e canto a bassa voce accompagnano il sabbat alla fine di ogni settimana.

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