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G. Testori - "I promessi sposi alla prova" 4 - Un semplice sì e la conversione

Autore:
Fighera, Giovanni
Fonte:
CulturaCattolica.it

Nella seconda giornata del dramma verranno, poi, ripercorse alcune tappe centrali del romanzo, la carestia e la rivolta del popolo a Milano, il voto di Lucia e il suo successivo scioglimento, la discesa dei lanzichenecchi, la peste, la morte di Don Rodrigo e di fra Cristoforo, il matrimonio. Ancora una volta il Maestro ricopre anche le parti di altri personaggi, Egidio e l’Innominato, il primo interprete solo nel male, l’altro capace di aderire al disegno buono cui il Mistero l’ha chiamato. Il Maestro riveste le parti sia di personaggi «buoni» che «cattivi», incarnando in sé l’abisso di male di cui l’uomo è capace e, nel contempo, la chiamata al bene che è per noi tutti, quasi a voler sfatare quella visione manichea tanto diffusa che tende a dividere la realtà e le persone in buone o cattive. Grande attenzione è rivolta al dramma che vive l’Innominato e alla sua conversione: il turbamento provato da tempo dall’Innominato, il «sì» pronunciato ancora una volta di fronte ad un piano di iniquità, l’incontro con Lucia e il ventilarsi di una speranza nelle parole di lei («Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia»). Mirabile per profondità è il discorso in cui l’Innominato, guardando dentro di sé, sorprende la radice del proprio male e della propria azione:

ci sono momenti, ore ci sono, in cui sembra essere stato il niente, proprio e solo lui, il niente, ciò che abbiamo corteggiato, desiderato ed amato; ciò per cui abbiamo, sempre, tutto osato. Allora – vedi?- anche una fogliolina che tremi lì, sull’albero, par troppo piena di vita e bisogna strapparla.

Un abisso di niente si apre nel cuore dell’Innominato di fronte al male e al passato di iniquità. Lui osa guardarlo e starci di fronte, comprendendo che la sofferenza, il dolore, la malattia sono il prezzo del peccato, da offrirsi per l’espiazione. Così, l’Innominato esclama:

La paura, come la malattia e la morte, sono, teologicamente parlando, lo stipendium. Stipendium peccati, intendo. E io; io, sì, che per un momento urlo ancora come Innominato, quello stipendium, cioè quel prezzo, che è necessario, che bisogna – è inutile illuderci - bisogna- in un modo o nell’altro, pagare.

La conversione dell’Innominato si apre alla speranza di una vita diversa e alla comprensione della sofferenza alla luce del mistero della croce di Cristo. Al contrario, verso la fine del dramma, Don Rodrigo non vorrà guardare il proprio male, ma cercherà di strapparlo, svellerlo con la lama del coltello per non doverci fare i conti. Anche per lui sarà indispensabile incontrare la carità, la perfetta gratuità di Cristo, anche lui dovrà essere perdonato e abbracciato senza che sia lui a chiederlo. Il Maestro dice:

occorre che non lui domandi pietà e perdono, bensì che altri, da sé, spontaneamente, quando lui ancora non intende chiederli, pietà e perdono gli offrano.

Si intravede qui il mistero della comunione dei santi che è parte del mistero dell’Essere e che è la carità. Nel testo leggiamo che il mistero dell’io è la «fraternità».

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