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"Come fili di seta" 2 - Libanesi immigrati ad Ellis Island

Fonte:
CulturaCattolica.it

Prima parte
L’arrivo ad Ellis Island


Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. Quando nella nebbia che ricopriva il mare ha visto emergere la dama di pietra che le tendeva la sua fiaccola immobile, si è tracciata il segno della croce davanti al viso candido ed esangue. Qualcuno stava dicendo: Quella è la Statua della libertà e laggiù, li vedete quei grattacieli? Ecco, quella è New York.
Così inizia il racconto, con la descrizione dell’arrivo della diciannovenne Marta Haddad ad Ellis Island nel 1913, dopo il drammatico viaggio che l’ha portata a New York da Btater, nel Libano.
Quando aveva preso la decisione di andare in America, l’aveva annunciato allo zio che spaventato per la nipote non voleva farla partire, ma davanti alle paure del vecchio lei aveva semplicemente detto: Mi aiuterà il Signore con quell’affidamento totale a Dio che la accompagnerà sempre, anche nelle circostanze più drammatiche e dolorose.
Prima di imbarcarsi per l’America a Le Havre era stata a Beirut, Haifa, Giaffa, Port Said, Alessandria. Aveva dormito in stanze sudicie di alberghi malfamati a Marsiglia, si era riempita di pustole fastidiose il viso e le braccia, aveva sopportato una febbre altissima e le provviste di cibo nel sacco erano sparite.
Al momento dell’imbarco sul piroscafo diretto verso il Nuovo Mondo, aveva dovuto affrontare un numero incredibile di persone che si era slanciato su per le scale, urlando, strattonandola fino quasi a farla cadere, indirizzandola poi ai piani sempre più bassi della nave, finché al quarto, sotto il livello del mare, era riuscita a fermarsi, a prendere posto vicino alla scala dove c’era più aria rispetto al fondo del dormitorio, dove il caldo e il fetore erano insopportabili.
Durante i giorni e le gelide notti sull’Atlantico, le porte di comunicazione fra i piani venivano chiuse con un catenaccio e ai passeggeri era proibito salire sul ponte se non nelle brevi pause destinate all’ora d’aria.
Con queste descrizioni lo scrittore ci fa ripercorrere il cammino comune a tanti emigranti che lasciata la loro terra hanno attraversato l’oceano con una valigia legata con la corda, pochi vestiti e qualche fotografia, per approdare in un paese differente dal proprio per lingua, abitudini e comportamenti, dove tutto all’inizio si presentava ostile e inospitale.

Ellis Island è un isolotto nella baia di New York e nei primi decenni del ‘900 era stata la meta obbligatoria di tutti gli emigranti che volevano entrare in America.
Un enorme edificio, un tempo arsenale militare, occupa buona parte dell’isola e qui un numero che si aggira per difetto sui 12 milioni di russi, europei, orientali sono stati accolti, alloggiati, nutriti, vestiti, visitati e registrati prima della concessione del visto d’ingresso, fra la fine dell’800 e gli anni ‘50 del Novecento. Oggi nell’atrio dell’edificio, divenuto Museo dell’Immigrazione, è collocato un monumentale schedario interrogando il quale si può sapere il nome di tutte le persone e i gruppi famigliari che sono transitati di lì, con fotografie, riferimenti, provenienze e date precise.

Tutto si decideva in quel luogo, o si entrava o si tornava indietro.
Sbarcata sull’isola, Marta viene quasi travolta e spinta dalla massa di persone che deve entrare negli edifici destinati all’accoglienza degli emigranti.
Era tutto un brulichio di gente e di voci, un bailamme di lingue, di colori, e di facce: c’erano persone che correvano, persone che piangevano, persone che cercavano documenti che non trovavano più.
Ogni minuto le è passato addosso come fosse la vita intera
, precisa lo scrittore, leggendo nel cuore della giovane sposa.
Una volta entrati tutti aspettano con ansia la prima visita e la venuta della donna che disegnava addosso a chi era ammalato una grande croce che impediva il visto d’accesso.
Anche Marta teme questo momento: ha lasciato Btater per cercare il marito Khalil Haddad, e il rientro in Libano significa perdere ogni speranza di trovarlo.

Confusione e paura segnano la prima notte trascorsa in uno degli stanzoni-dormitorio di Ellis. Mentre ascolta l’oceano schiaffeggiare le rocce, la protagonista non riesce a prendere sonno perché è stata fermata e messa in quarantena. Sdraiata accanto alla sacca di iuta stringe la croce di legno che porta al collo, pregando in continuazione di non essere respinta e quindi rimpatriata.
Al tramonto del terzo giorno, diretta al suo padiglione, le viene incontro un gruppo di siriani riconosciuti dai vestiti caratteristici, dai tarbush rossi (copricapi), gli sherval (calzoni) svolazzanti, i gilet turchini e le facce scure color della terra e i baffi marroni come le castagne.
Le preghiere recitate nella notte, e la compagnia dei nuovi festosi amici confortano la giovane protagonista, ancora combattuta fra l’angoscia di quello che può succederle e la sorpresa di incontrare anche lì persone buone con cui parlare la sua lingua e ricordare la sua terra.
Per il resto del soggiorno sarà Kamir, il siriano di Tabarja, a volerle stare sempre accanto, a spiegarle la contagiosità del tracoma, malattia che la protagonista aveva contratto in viaggio, a regalarle le ultime albicocche zuccherate e il formaggio di capra conservati nel viaggio.
Ma non è il solo uomo sull’isola a rimanere colpito da Marta, per il fascino suscitato dalla sua figura, dalla bellezza del viso, dai grandi occhi, dalla massa di capelli neri.
Un mattino il trillo di un campanello sveglia di soprassalto l’intero dormitorio. Bisogna affrontare la visita definitiva.
Il medico con un bastoncino infilato sotto le palpebre controlla gli occhi di Marta e con un sorriso la indirizza al funzionario della Sala dei Registri per il timbro sul lasciapassare: sì, sarebbe entrata in America.
E qui si conclude la prima parte del romanzo.

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