“Barabba” di Pär Fabian Lagerkvist 1 - Linguaggio come pittura
- Autore:
- Curatore:
- Fonte:

Un "credente senza fede, un ateo religioso": con questo potente ossimoro si definiva Pär Lagerkvist (1891-1974), romanziere, poeta, autore di testi teatrali, che in tutte le sue opere si interroga sulla condizione umana e sulla necessità di un Dio, che però si nasconde, si sottrae, sta in silenzio e sembra incomprensibile.
Nato in una cittadina della Svezia meridionale, Lagerkvist conobbe da giovane a Parigi le avanguardie letterarie ed artistiche (soprattutto il cubismo) che contribuirono alla sua formazione ed ebbe una grande passione per il teatro. Scrisse infatti opere teatrali oltre a raccolte di poesie.
La sua popolarità però è soprattutto legata ai romanzi, tra cui appunto “Barabba” (1950) che gli valse il premio Nobel per la Letteratura nel 1951: “…per il suo vigore artistico e per l'indipendenza del suo pensiero con cui cercò, nelle sue opere, di trovare risposte alle eterne domande che l'umanità affronta.”
L'autore stesso ha in seguito riproposto il romanzo “Barabba” sotto forma di un dramma in due atti.
Nella prefazione di Alessandro Ceni al romanzo “Barabba” nell’edizione Jaca Book del 1985 troviamo alcune interessanti osservazioni sul linguaggio che caratterizza il romanzo stesso:
“Barabba non è scritto, né eseguito; è composto e rappresentato(…) fondendo due caratteristiche sufficientemente estranee al narrare: la pittura e la rappresentazione scenica. Sotto la probabile influenza dei suoi precedenti lavori teatrali – Il boia, del 1939; L’uomo senza anima, 1936; e soprattutto, Lasciate che gli uomini vivano,1949 (…) Lagerkvist conduce il racconto non per trame ma per scene (forse stazioni) secondo le strutture tradizionali del dramma religioso.(…)
La pittura svedese di Lagerkvist (…) è una molto bella commistione di quella italiana d’un Masaccio o d’un Mantegna, con quella, più brulicante, di certi tedeschi come Altdorfer o Cranach e, da solo, Rembrandt.
(…)Dai tedeschi deriva molti ritratti, la rudezza e, spesso, la bestialità delle caratteristiche, oltre a qualcosa di malsano, di laido, col quale dipinge alcune figure (la grassona, i compagni della taverna, i primi sguardi, o sguardate, dello stesso Barabba, poi mutati)
(…) Rembrandt è dedicato agli interni: caverne ramate, bui e bianchezze improvvise, tesi particolari delle oscurità, voci. (…) (Da segnalare i capitoli XIV e XV, dove tutto è immerso nell’ombra con improvvisi bagliori di fucina: quella tipica luce rembrantiana che sembra sempre essere quella che potrebbe provocare un angelo al suo apparire al centro della terra)”.