Condividi:

Chesterton, l’imprevedibilità del buon senso - 5

Autore:
Averincev, Sergej
Fonte:
La Nuova Europa n. 2, marzo 2001
Parte quinta: La scelta del buon senso

L'influsso del fratello è avvertibile qua e là in certi brani, caratterizzati da un'aggressività a Chesterton non connaturale.
Belloc era un brillante stilista e, come testimoniano i contemporanei, un ancor più brillante conversatore, un vero e proprio virtuoso della discussione; in lui c'era qualcosa del duellante. Egli combinava le vaste anche se non sempre solide cognizioni nel campo della storia, della sociologia e in parte dell' economia politica con una grande sicurezza di sé. I suoi giudizi sul medioevo europeo e sulla rivoluzione francese, da lui amati, nonché sul XVI secolo inglese, che lui non amava, si distinguevano per l'estrema perentorietà. Seppe individuare con sguardo perspicuo alcuni tratti della propria epoca - ad esempio lo sviluppo dei monopoli e la conseguente trasformazione del modo di vita occidentale nel suo complesso. Il suo libro Lo stato servile può essere letto anche oggi come una profezia. Fu lui a familiarizzare Chesterton con queste materie. I due scrittori intervenivano fianco a fianco in polemiche d'attualità, attaccando il capitalismo e contemporaneamente il socialismo, difendendo la fede cattolica e la piccola proprietà contadina; i contemporanei avrebbero quasi potuto prenderli per dei sosia uno dell'altro. Bernard Shaw, ch'era con essi in perenne discussione, affibbiò loro il soprannome di «Chesterbelloc», che circolò ampiamente. Chesterton stesso nell'Autobiografia parla con grande compiacimento del Chesterbelloc come di un mostro quadrupede e bifronte venuto alla luce in un modesto caffè di Soho. Oltre alle convinzioni, a legarli era anche un'analoga sensibilità stilistica, un po' retorica; ma le loro anime non si assomigliavano. Basti ricordare che le migliori poesie di Belloc sono una derisione molto maligna e una messa in ridicolo della poesia educativa per l'infanzia, una sorta di umorismo nero per bambini, per capire quale abisso lo separi da Chesterton, cui il pensiero dell'infanzia ispirava versi di ben altra natura. Qui non è questione della maggiore bonarietà di Chesterton - tanto più che la cosa non è poi così semplice, visto che sotto il velo della famosa bonomia chestertoniana si nascondono parecchie cose - ma piuttosto del fatto che in qualche luogo profondo della sua personalità c'erano inesauribili riserve di una tale gioia che al cospetto di essa certe sortite e trovate pungenti e mordaci appaiono soltanto meschine.
Cecil era l'amato fratello, Belloc il migliore amico. Persone più prossime, a parte Frances la moglie, Chesterton non ne aveva. Lui avrebbe sempre ardentemente voluto inchinarsi a ciò che dicevano e seguire i loro consigli, e questo tratto di modestia, per sé anche simpatico, aveva però dalle conseguenze talvolta deplorevoli. Va comunque detto che per noi oggi è molto più facile notare i casi in cui l'influsso dell'amico e del fratello ha fatto deviare lo scrittore dal cammino per lui più organico che quelli in cui, in misura oggi impossibile da determinare, il sostegno morale da essi prestato, l'ha aiutato a superare ciò che egli stesso chiamava la propria pigrizia -vale a dire una certa contemplativa passività, che gli era propria fin dall'infanzia - e a scrivere così tanto e instancabilmente, nonché a colloquiare coi propri lettori con tanta facilità e sicurezza. Come si usa dire, non è una buona cosa che l'uomo sia solo, e senza Cecil e specialmente senza Belloc, Chesterton avrebbe rischiato la solitudine se non nella vita (c'era con lui Frances), nella letteratura... Anche se, come si diceva, più difficili da stabilire sono comunque i casi più frequenti: quelli in cui tutti e tre, con maggiore o minore fondamento, ritenevano di pensarla allo stesso modo. Di tutt'altro genere è il caso di quel Bernard Shaw che ribattezzò i suoi contraddittori col nome di Chesterbelloc. Chesterton disputò con Shaw letteralmente su ogni cosa al mondo e anche qualcosa di più - di Dio e della religione, della scienza e della scientificità, del problema delle nazionalità, di quale fosse il miglior assetto sociale possibile per l'umanità, eccetera, eccetera. Essi discutevano privatamente e pubblicamente, a voce, per lettera e a stampa, in lettere, articoli, libri, recensioni e conferenze. La conversione di Chesterton al cattolicesimo avvenne con l'accompagnamento dei commenti ironici di Shaw; Chesterton non gli fu da meno insistendo, ad esempio, sulla maggiore chiarezza logica e, di conseguenza, «scientificità» del vecchio concetto di «Dio» rispetto a quello, caro a Shaw, della «forza vitale». Shaw attaccò ferocemente l'utopia basata sulla piccola proprietà contadina di Chesterton, e Chesterton l'ordinato socialismo fabiano di Shaw. Ma nessuna divergenza d'opinione poteva impedire loro di essere entusiasti uno dell'altro e di professare una reciproca e sincera simpatia...

La scelta del buon senso

Ma Chesterton aveva anche un altro avversario, col quale non smetteva mai di discutere neppure quando in superficie non appa­riva alcuna disputa e solo dal tono inconsuetamente vibrante di qualche semplice asserzione si poteva capire che qualcosa aveva toccato nel vivo l'autore. Questo eterno avversario era Chesterton stesso com' era da giovane, negli anni in cui aveva studiato in due scuole d'arte di seguito; emotivamente viziato e snervato all' estremo, eternamente perso in sogni ad occhi aperti, lasciava un'illimitata libertà alle forze istintive della pro­pria anima, senza alcun aggancio al mondo concreto e reale. E tutto ciò avveniva nella soffocante atmosfera di fine secolo, ai tempi di Swinburne e Oscar Wilde, quando ogni cosa sembrava esalare un sottile veleno.Il ragazzo si mantenne buono, almeno quanto all'indole, e assolutamente innocente in senso esistenziale; ma incombeva su di lui il pericolo di diventare una «natura artistica» con tutte le sgradevoli peculiarità connesse. Il soffio quasi impercettibile di ciò che lui stesso avrebbe poi chiamato anarchia morale minacciava di rendere insensate gioia e purezza. Non capiremo mai nulla di Chesterton se dimenticheremo con quale accanito impegno dovette adoperarsi per evitare che ciò avvenisse. Non capiremo né lo shock né l'entusiasmo che lo presero quel giorno in cui seppe che la sua futura moglie era del tutto diversa, che non aveva la benché minima predisposizione per gli interminabili conversari sull'arte e addirittura non amava il chiaro di luna, e in compenso adorava il giardinaggio; e che gli scrittori più alla moda non le facevano né caldo né freddo. Non capiremo la sua romantica venerazione nei confronti di cose e persone tutt'altro che romantiche: il senso di attaccamento alla casa della donna e il cameratismo senza cerimonie tra uomini, la ruvida franchezza di una sana disputa, la «creativa parsimonia» dei contadini, e, prima di ogni altra cosa, il buon senso e i truismi della morale tradizionale. Non si può certo sostenere che in Chesterton non siano rimasti per tutta la vita i tratti del ragazzo di un tempo. E neppure si può sostenere un'altra cosa e cioè che la presenza di questi elementi abbia sempre costituito una sua debolezza. In generale separare la debolezza dalla forza non è così facile - chi si azzarderebbe a tracciare la linea sulla quale i paradossi di Chesterton cessano di essere l'espressione di una mente libera e assolutamente assennata e cominciano a somigliare proprio a quell'oltremodo lieve galleggiamento dello spirito nell'imponderabilità, che minacciava a suo tempo l'allievo delle due scuole d'arte? Entro certi limiti è ragionevole considerare la debolezza come il rovescio della forza; però, appunto, entro certi limiti. Il limite alle sue debolezze l'ha tracciato lo stesso Chesterton, e l'ha fatto lottando duramente con se stesso. Per tutta la vita egli ha punito e mortificato dentro di sé l'esteta, sottoponendolo a una vera e propria flagellazione e sforzandosi per giunta di farlo con allegria. Questo rende comprensibili molte cose che altrimenti apparirebbero come una strana propensione per l'ordinarietà. Tutto ciò che è di ausilio alla terapia di shock cui egli assoggetta l'estetismo, già solo per questo incontra l'apprezzamento di Chesterton - ad esempio, il genere poliziesco o il melodramma. Dal suo punto di vista è meglio un riso grossolano che un sorriso di sufficienza assorto e posato, perché nel secondo c'è un sottile male spirituale che è assente nel primo. Per quanto riguarda i dettami morali ritenuti ovvii, essi sono invece visti come la cosa più imprevedibile che possa esserci al mondo: come un approdo salvifico al di là della follia. Se si tiene presente l'esperienza giovanile dello scrittore, la cosa è comprensibile. Nell'ambiente della gioventù artistica, i paradossi erano la norma, mentre sui dettami morali era stato posto il tabù; per questo, mentre l'abitudine ai paradossi gli era rimasta per sempre, Chesterton si rendeva conto che per proclamare i vecchi dettami era richiesto del vero coraggio.
Il suo buonsenso non era un fatto scontato, ma una scelta, drammatica, come ogni vera scelta. (Fine)

Vai a "Chesterton: il pensiero"