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Chesterton, l’imprevedibilità del buon senso - 4

Autore:
Averincev, Sergej
Fonte:
La Nuova Europa n. 2, marzo 2001
Parte quarta: L’autobiografia di un uomo felice

Nell'Autobiografia Chesterton ha descritto la propria vita come straordinariamente felice. Se dobbiamo credergli, ha avuto i migliori genitori del mondo - specialmente il padre; gli amici più gradevoli che ci si possa immaginare; sua moglie Frances, poi, è assolutamente al di sopra di ogni lode. Durante tutta la vita egli l'ha celebrata con parole che le donne da tempo non sono più abituate a sentire; i versi che le ha dedicato non sono semplicemente amorosi - l'ardore sensuale cede completamente di fronte a un sommesso incanto. «Tu hai visto il suo sorriso - oh anima, sii di esso degna!» - dice egli rivolgendosi a se stesso. - «Tu hai visto le sue lacrime - oh cuore, sii per esse purificato!...». Un antico poeta inglese ebbe a dire all'innamorata che l'avrebbe amata meno se non avesse amato ancor più di lei l'onore. Qui è un caso invece in cui la donna è amata dello stesso amore con cui è amato l'onore, quando cioè in essa viene riconosciuta l'incarnazione dell'onore, la sua visibile manifestazione. E ogni gioia è per tutta la vita. Il calore dell'infanzia, il calore della casa paterna, il gusto del gioco e il senso di giustizia infantile non se ne vanno, restano con Chesterton. E danno alla sua vita misura, orientamento e significato. L'amore romantico non si volatilizza - dopo una lunga vita coniugale esso è più forte di quanto non lo fosse prima del matrimonio. Nell'esperienza della realtà tutto risulta ancor più inconcepibile di quanto non apparisse nelle fantasie giovanili. L'uomo invecchia, la gioia no. «E tutto diventa nuovo, anche se io divento vecchio, anche se io divento vecchio e muoio».
Abbiamo detto: se dobbiamo credergli; ma dobbiamo?
Quando la questione è posta in questi termini, la risposta può essere solo affermativa. A chi non credesse che la gioia, la riconoscenza e la fedeltà di Chesterton siano umanamente autentiche non conviene perdere tempo a leggere i suoi libri: si dedichi piuttosto ad altre occupazioni. Anzitutto perché i libri non sono tali da doverli approfondire esclusivamente per un interesse di tipo letterario; e in secondo luogo, ognuno di noi che siamo vivi se incontra nel corso di una conversazione un atteggiamento ingiuriosamente incredulo ha tutto il diritto di troncare tale conversazione: ebbene è forse bello approfittarsi del fatto che lo scrittore morto è nell'impossibilità di fare lo stesso e di voltare le spalle al lettore irrispettoso? Non esistono fondate ragioni per sospettare che Chesterton, scrivendo della propria vita, ci abbia raccontato in luogo della verità una gradevole menzogna; e chi lancia accuse senza fondamento è un calunniatore. A questo proposito, da altre fonti viene in linea di massima confermato il quadro raffigurato nell'Autobiografia. Bisogna essere un cinico fuori di senno per sostenere o, ancor peggio, insinuare che rapporti così sani e puri nella casa patema, nella cerchia degli amici, nella vita coniugale come quelli descritti da Chesterton non possono essere veri, perché non possono essere veri in generale. Questo non è soltanto ripugnante ma anche intollerabilmente idiota. Converrà dunque compatire il cinico, riprenderlo - per il suo stesso bene - e dimenticarlo in fretta.
D'altro canto, questa peculiarità della vita di Chesterton di essere felice non è uno di quei fatti di cui prendere debitamente nota e allegare agli atti, alla pari, per dire, delle date di nascita e di morte. Non è neanche tanto una questione di fatto quanto di significato, e si risolve non «obiettivamente», vale a dire non fuori dal soggetto, ma proprio nel soggetto e con l'attiva collaborazione di questo. Infatti la vita in quanto tale non dà affatto la felicità ma solo, di essa, i presupposti; al tempo stesso dà anche altre cose: pretesti abbastanza plausibili, richiamandoci ai quali possiamo fare a meno di essere riconoscenti nei confronti del destino e delle persone, sottraendoci in tal modo anche alla stessa felicità. La riconoscenza è il cuore della felicità; detraete dalla felicità la riconoscenza e cosa resta? - delle circostanze propizie, niente di più.
Ringraziare per davvero, invece, è una faccenda veramente seria e chi conosce gli uomini sa quanta fatica costi. In tal modo, l'ultima decisione è posta nelle mani dell'uomo stesso: o egli saprà perdonare - proprio perdonare e non semplicemente inghiottire l'offesa - non dimenticandosi neanche, s'intende, di chiedere a sua volta perdono e nell'atto del ringraziamento accogliere e riconoscere la propria felicità con la mente e la volontà; oppure la felicità verrà distrutta insieme alla riconoscenza, e allora ogni discorso è inutile. Per questo se Chesterton descrive la sua vita come felice, noi veniamo a sapere molte più cose su di lui che sulla sua vita.
Nei versi giovanili egli ha espresso 1'esigenza di ringraziare per ogni singolo sasso sul fondo del ruscello e per ogni singola foglia sull'albero e per ogni singolo stelo d'erba nel prato. Nell'Autobiografia degli ultimi anni ha fatto una cosa alquanto più impegnativa - ha ringraziato per ogni singola persona incontrata. La sua filosofia della felicità è questa. Ed è proprio una filosofia, non semplicemente una disposizione d'animo; ed è importante capire la sua peculiarità.
C'è una corrente combinazione di parole: «diritto alla felicità». Essa risale all'ideologia del secolo di Rousseau; nel contesto politico, diciamo, della Dichiarazione americana d'indipendenza ha un significato molto preciso contro il quale Chesterton, in ogni caso, non avrebbe mai avuto niente da ridire. Ma al di fuori di un contesto di questo tipo la formula diventa pericolosa. L'uomo è in realtà incline a considerare la felicità un diritto che gli spetta, un credituccio da niente che, chissà come, non si decidono mai a restituirgli. Un'intera vita può essere mandata in malora dal tentativo di riscuotere questo credito di felicità dagli uomini e dal destino, di impiantare una causa per ottenere ciò di cui ci si sente defraudati importunando con le proprie querimonie il cielo e la terra. Ma la felicità non è una cambiale che si possa mandare all'incasso, la felicità si riceve solo in dono. È tanto immeritata quanto imprevedibile: sono queste le sue immancabili proprietà; del resto avrebbe potuto anche non esistere, e lo stesso vale per noi. Chi di noi, dice Chesterton, è degno di vedere anche solo un semplice fiore, il tarassaco, e la sua sfera gonfia ai semi dispersa dalla brezza?

Le dispute con gli amici

L'elemento della discussione occupò un posto considerevole nella vita di Chesterton. Verrebbe talvolta quasi da dire - fin troppo. Nella foga della discussione si è indotti ad alzare il tono della voce, a esagerarne gli accenti, dando loro il tono incalzante della sfida, dell'enfasi. Quando ci si infervora in una discussione, capita spesso, come è noto, di «lasciarsi trasportare» e questo a Chesterton capitava piuttosto di frequente. Certamente egli avrebbe da ridire su quanto abbiamo appena affermato (e così avremmo un'altra discussione - sulla discussione). Possiamo perfino figurarci a un dipresso quali sarebbero i suoi argomenti. Farebbe notare che l'atmo­sfera stessa della discussione purifica le pas­sioni che scatena - naturalmente a condizio­ne che sia uno scambio di idee onesto, un con­trasto cavalleresco incruento, senza neppure un'ombra di lite col contraddittore. «Detesto il litigio, diceva, perché è un ostacolo alla discussione». Se è vero che nel discutere si alza la voce è anche vero che in compenso non una sola parola viene lasciata cadere in un cortese silenzio, nessuno osa pontificare col tono dell' oracolo poiché si sa fin da prima che ogni cosa detta verrà comunque discussa; è in questo la democraticità della discussione. Meglio infuriarsi che ostentare indifferenza nei riguardi delle proprie e altrui convinzio­ni, e qualsiasi ruvidezza è preferibile alla quieta boria che elude la discussione con un sorriso e si isola nel proprio mondo egocentrico per rimirarsi allo specchio. La ruvidezza si addice a quel cameratismo maschile, a quell'amicizia tra uomini che Chesterton riteneva inimmaginabile senza dispute.
Gli amici di Chesterton erano dei grandi disputatori. Qui dobbiamo citare due persone: il fratello minore Cecil e lo scrittore Joseph Hilaire Belloc. Nel loro caso la passione per l'arte disputatoria era probabilmente qualcosa di più organico che non per Chesterton. Un tratto comune a tutti e tre era la propensione per un «dogma» solido, un credo nettamente tracciato - in barba all'indistinto liberalismo che tendeva a esimersi dallo spiegare la propria filosofia. Agli altri due mancava però la magnanimità di Chesterton nonché la sua mitezza e poesia. Essi erano di gran lunga più duri, non senza cattiveria, in parte elevata a principio, nel modo di comportarsi e di esprimersi. Essi spingevano Chesterton in direzione della satira, che era estranea al suo temperamento; tuttavia la personalità artistica si faceva sentire e i motivi satirici si trasformavano per conto loro nelle mani dello scrittore, mutandosi nel migliore dei casi in un apologo oscuro, nel peggiore in un'allegra buffonata.
Come giornalista Cecil si dedicava prevalentemente a smascherare e svergognare qualcuno. Ormai non è più possibile farsi un'idea di quanta parte di verità ci fosse nelle sue denunce. Quel che non gli si può negare è il coraggio civico poiché le persone ch'egli prendeva di mira erano assai influenti; una volta rischiò anche il carcere per diffamazione. Però in lui si trovano anche i connotati del demagogo importuno nonché accenti antisemiti. Gilbert adorava il fratello, vedeva in lui un amante della verità, quasi un martire, e dopo la sua morte in un ospedale francese questi sentimenti naturalmente si rafforzarono. (Continua).

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