Attraverso l’opera di Rebora: il grido

Autore:
Bortolozzo Carlo
Fonte:
CulturaCattolica.it
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Verifichiamo ora, attraverso un essenziale excursus, i principali motivi della poesia reboriana. Già nel testo di apertura dei Frammenti lirici, il poeta dichiara i termini della sua poetica. “L’egual vita diversa urge intorno;/ Cerco e non trovo e m’avvio/ Nell’incessante suo moto:/ A secondarlo par uso o ventura,/ Ma dentro fa paura./ Perde, chi scruta,/ L’irrevocabil presente”. Si avverte quasi un’eco foscoliana della “forza operosa” che affatica le cose “di moto in moto”, nell’affanno umano di cogliere un briciolo di felicità. Ma è nel Frammento III che notiamo la prima grande prova della raccolta: un temporale improvviso si scaglia contro la città e contro il cuore dell’uomo, tramutandosi in un fatto interiore: “s’inombra come un’occhiaia,/ e guizzi e suono e vento/ tramuta in ansietà/ d’affollate faccende in tormento:/ e senza combattere ammazza”. Il drammatico agonismo di Rebora si palesa nello scontro tra natura e uomo, in pose quasi titaniche: “Umana industria sacra/ Nel vortice m’esalto della lotta”(Fr. V). Uno dei vertici del libro è senz’altro il Frammento XI, O carro vuoto sul binario morto, in cui viene messo in scena, con potente allegoria, il conflitto tra un cielo imprevedibile e l’uomo chiuso “nel labirinto dei giorni/ nel bivio delle stagioni”, diviso tra noia ed eterno, “tra prigionia dell’hic et nunc e volontà di assoluto” [1]; l’uomo rimane straziato nelle sue domande senza risposta. A questa angosciosa consapevolezza si alternano momenti di più riposata fiducia, come nel Frammento XIII: “Quando s’eleva il cuore/ All’amoroso dono,/ Non più s’inventan gli uomini, ma sono”. Commenta un lettore simpatetico come Luigi Giussani: “Quando il cuore si eleva a percepire che tutto è dono, quando fa tale scoperta, allora gli uomini non s’inventano più, non inventano più se stessi, non si fingono, non debbono immaginarsi, ma finalmente sono” [2]. Rebora ritorna ai temi più caratteristici della raccolta nel Frammento XIV, dove una pioggia feroce stanca la terra, in un movimento che sarà caro a Montale; anche da questa situazione il poeta cerca una via di fuga, stavolta affidata alla creazione artistica (“fiala soave dell’estro”) o al distacco contemplativo (“vagheggiando dall’alto/ la vita”). Le domande continuano a vibrare accanite: “O realtà essere in te vorrei:/ Ma in un concreto e alterno/ Svariar perdo il senso/ Del tuo vortice eterno” (Frammento XXV). Ed ancora: “Urgono anele domande/ dal libero vol delle sfingi celesti/ Al nostro transito avvinto/ Che sa fioche risposte:/ Per terre e per mari/ Gli uomini inquieti si cercano avari/ Purgando nel sangue amarezze riposte” (Frammento XXXIX). Di fronte a tale abisso, la ragione e l’arte non offrono risposte adeguate (Fr. XLII e XLIII). La ricerca si fa sempre più spasmodica, come nel Frammento XLV: “Attesa che scocca/ Verso un ben ch’è vicino e non tocca,/ Speranza che pare saldezza/ E a mano a mano si sgretola”. Rebora giunge ad una dichiarazione di poetica nel Frammento XLIX: qui la poesia si identifica con la realtà, “di cui riflette nello stesso tempo, contraddittoriamente, la negatività caotica e lo slancio potenziale di liberazione” [3]. Essa diventa così “Poesia di sterco e di fiori,/ Terror della vita, presenza di Dio”.
Negli ultimi testi s’infittiscono angoscia e domanda: “Dalle pagine ingombre, ottenebrato/ il mio volto s’alza a chiedere/ La verità della vita” (Fr. LV); emergono volontà di solidarietà e di comunanza:”E del sangue di tutti è il mio polso./ Come canto in melodia,/ Come nota in armonia,/ Nell’amor della gente mi paleso” (Fr. LVI). Affiorano ancora slanci mistici verso la “misteriosa armonia”, capace di vincere la fatica della vita (Fr. LX), per aprirsi infine al grande tema dell’attesa e della speranza: “Io non ho numi né glorie,/ Io non ho donne né bimbi,/ Io non ho lucri né mete,/ Ma un vasto cuore intero/ Che toglie dall’ora di tutti/ L’infinita ricchezza e la dona”, come afferma lo splendido Frammento LXIII.
Nel secondo libro reboriano, Canti anonimi, confluiscono le tragiche esperienze delle guerra e, sempre più vibranti, i segni dell’attesa e della ricerca. Fin dall’epigrafe, il poeta avverte la responsabilità della decisione: “Urge la scelta tremenda:/ Dire sì, dire no/ A qualcosa che so”. Di un momento di passaggio è testimone anche la nota introduttiva: “Queste liriche appartengono a una condizione di spirito che imprigionava nell’individuo quella speranza la quale sta ormai liberandosi in una certezza di bontà operosa, verso un’azione di fede nel mondo. Esse ne sono testimonio e pegno di assoluzione”. Il poeta registra dapprima un’insoddisfazione: “E giunge l’onda, ma non giunge il mare”, s’intitola una delle prime poesie. Ed ancora nella splendida Sacchi a terra per gli occhi, urlo lanciato al Destino: “Qualunque cosa tu dica o faccia/ C’è un grido dentro:/ Non è per questo, non è per questo!// E così tutto rimanda/ a una segreta domanda:/ L’atto è un pretesto”. (…) “Nell’imminenza di Dio/ La vita fa man bassa/ Sulle riserve caduche,/ Mentre ciascuno si afferra/ A un suo bene che gli grida: addio!”. Il poeta milanese si prepara con questi versi alle sue liriche più alte, dove la tensione drammatica toccherà il culmine. Ne sono testimonianza Gira la trottola viva, vortice di aspra verticalità: “Così la trottola aspira/ Dentro l’amore, verso l’eterno”.
Capolavoro assoluto di Rebora è la celebre Dall’imagine tesa (1920), conclusiva della raccolta.
La riportiamo per intero:

Dall’imagine tesa
Vigilo l’istante
Con imminenza di attesa –
E non aspetto nessuno:
Nell’ombra accesa
Spio il campanello
Che impercettibile spande
Un polline di suono –
E non aspetto nessuno:
Fra quattro mura
Stupefatte di spazio
Più che un deserto
Non aspetto nessuno:
Ma deve venire,
Verrà, se resisto
A sbocciare non visto,
Verrà d’improvviso,
Quando meno l’avverto:
Verrà quasi perdono
Di quanto fa morire,
Verrà a farmi certo
Del suo e mio tesoro,
Verrà come ristoro
Delle mie e sue pene,
verrà, forse già viene
Il suo bisbiglio

Il poeta attende “un fatto che venga a dare un senso all’attesa e alla tensione”, commenta Luperini [4]; Jacomuzzi riconosce “un’intensità di tono che fa di questa poesia uno dei più alti canti religiosi dell’arte contemporanea” [5]. La Presenza sta ormai per accogliere il grido del poeta.
Straordinarie poesie di guerra sono poi Voce di vedetta morta e Viatico, comprese in Poesie sparse. Nella prima, il poeta assume la prospettiva (voce) della sentinella (vedetta) morta, per urlare tutta l’insignificanza della guerra, protendendosi verso un valore che riscatti la sofferenza; nella seconda, ancora più notevole, si rievoca, con linguaggio crudamente espressionista, l’agonia di un soldato moribondo tra “melma e sangue/ Tronco senza gambe”, il quale trascina verso di sé tre compagni, periti nel vano tentativo di salvarlo. L’aria è pregna di orrore e di pietà, e stavolta il punto di vista è dei sopravvissuti, incapaci di resistere a tanto strazio, al punto da implorare il compagno agonizzante di “finire”, lasciandoli “in silenzio”. La poesia si chiude con un “Grazie, fratello”, mentre si era aperta col vocativo “O ferito”, a testimoniare l’umanità sgomenta di Rebora.
Poesie di tale forza drammatica fanno di Rebora un poeta non tanto inferiore a Ungaretti, anzi a detta di Pozzi, “di fronte a questo Viatico, anche il fante Ungaretti rischia di apparirci un letterato compiaciuto” [6].

Note

[1] E. Gioanola, in Poesia italiana…, cit., p. 170

[2] L. Giussani, Il dramma di Clemente Rebora, in Le mie letture, BUR, Milano 1996, p. 57.

[3] P.V. Mengaldo, in Poeti italiani…, cit., p. 253.

[4] R. Luperini, P. Cataldi, L. Marchiani, F. Marchese, La scrittura e l’interpretazione, Palumbo, Palermo 1999, vol. 3, t. II, p. 480.

[5] S. Jacomuzzi, Clemente Rebora, in G. Barberi Squarotti – S. Jacomuzzi, La poesia italiana contemporanea dal Carducci ai nostri giorni, D’Anna, Messina-Firenze, 1984, p. 211.

[6] G. Pozzi, La poesia italiana del Novecento. Da Gozzano agli Ermetici, Einaudi, Torino 1967, p. 83.