Zeus, chiunque tu sia
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«Come puoi tu, fragile e limitato essere umano, pretendere di conoscere i disegni divini?» E’ il pensiero di un autore pagano, Eschilo, un poeta tragico vissuto circa cinquecento anni prima di Cristo. Alla fine della tragedia Le Supplici il poeta fa dire al Coro della tragedia: “Come potrei scrutare il pensiero di Zeus, vista abissale?”: i disegni della divinità sono una figurazione misteriosa e sconfinata che non è concesso all’uomo di scorgere, perché vi si perderebbe.
Eschilo passa quasi tutta la sua vita ad Atene: solo negli ultimi anni si trasferisce in Sicilia e muore a Gela (nel 456 a.C.). Nella sua vita accetta e porta sulla scena gli ideali e la visione della vita della polis ateniese: il poeta si percepisce talmente legato alla sua patria e alle sue istituzioni, che nell’epitaffio da collocare sulla tomba volle che non si ricordassero i suoi meriti di poeta tragico, mentre mise in rilievo la sua presenza nella battaglia di Maratona, in cui la piccola e debole Grecia si oppose vittoriosamente al tentativo di conquista e di sottomissione operato senza risparmio di mezzi militari dal potente esercito invasore dell’impero persiano. In quanto si riconosce negli ideali ateniesi, Eschilo ne condivide i culti religiosi, e quindi accetta il politeismo pagano e accetta i miti che parlano degli dèi e fanno parte della storia sacra di Atene. Anzi, emerge dalle sue tragedie superstiti quanto il poeta sia attento nell’osservare i culti degli dèi: ognuno di loro ha la sua sfera di influenza, esige dall’uomo devozione e preghiera e regola secondo le sue prerogative i vari momenti e i vari ambiti della vita umana. La presenza di una pluralità di dèi, non sempre in accordo fra loro e non sempre animati da sentimenti favorevoli all’uomo, non impedisce a Eschilo di percepire la maestà e l’unicità di un essere divino che ha piena signoria dell’universo, al di là di tutti gli dèi, e si pone come garante della giustizia e del bene. La varietà poliedrica e quasi lussureggiante del politeismo è come un prisma in cui si rifrange la luce di una divinità misteriosa che domina su tutti gli dèi, Zeus. L’immagine che Eschilo ha di Zeus è naturalmente l’immagine che il mito gli propone: un’immagine che non sempre corrisponde a quella di una divinità benefica e positiva. Tuttavia Eschilo percepisce, sia pure in modo confuso, che tra l’immagine tradizionale di Zeus e il desiderio di significato dell’uomo c’è uno scarto: il vero Zeus che l’uomo desidera non può avere i limiti raffigurati nei miti. Il poeta lo fa dire chiaramente al Coro della sua tragedia Agamennone: i vecchi sudditi di Agamennone nella città di Argo, che per la loro età sono stati lasciati indietro dalla spedizione di Troia, ma che attingono dal fondo del loro animo la sapienza di chi ha visto troppe volte attuarsi l’azione degli dèi nelle vicende della casa regale della loro città, propongono all’inizio di una tragedia un canto che ripercorre, dando loro un senso, una storia di colpe e di espiazioni: è un canto insieme doloroso e carico di speranza, più volte intervallato dalla formula «triste, triste canto intona, ma il bene trionfi!». Nel corso del canto prorompono in questa esclamazione:
«Zeus, chiunque egli sia, se con questo nome gli è caro essere invocato, con questo lo invoco: non ho altro da mettere a confronto, pur dopo avere vagliato tutto, se non Zeus, se veramente conviene gettare via l’angoscia del vano pensiero. (…) Chi rivolge gioiosi epinici a Zeus avrà la totalità della saggezza. Lui ha condotto i mortali verso la saggezza, facendo sì che avesse valore il capire per mezzo della sofferenza».
C’è dunque una pedagogia severa, che porta l’uomo colpevole a riconoscere il senso delle proprie azioni negative (in termini cristiani diremmo del proprio peccato) attraverso la sofferenza. La trasgressione (il peccato) più grave per Eschilo è la hybris: la pretesa di eccedere oltre il proprio limite, dimenticando che per tutti, uomini mortali e divinità, vi sono delle soglie che non è possibile superare. Può essere la pretesa di avere troppo, in termini di ricchezza o di potere, o di trasgredire le leggi morali. L’universo dell’uomo greco è un kósmos bene ordinato, e il destino prende il nome di moîra, parola che nella sua etimologia significa ‘distribuzione delle parti’. La hybris mette in discussione un delicato equilibrio tra forze contrastanti, e dunque gli dèi devono intervenire per ripristinare lo stato primitivo. L’intervento divino si esplica in punizioni e spargimento di sangue (l’idea di perdono è ignota a quest’epoca), in qualche caso fino allo sterminio di intere famiglie. Questo perché il peccato non muore in sé stesso, ma genera una propensione al male che si trasmette attraverso le generazioni. Per questo la punizione divina può ripercuotersi anche sui discendenti del colpevole: il delitto del progenitore li porta quasi inevitabilmente a nuove colpe e nuovi delitti. ma, come dice ancora il poeta pochi versi dopo, per quanto possa essere duro, l’intervento divino è un “dono violento”, una grazia (viene usata proprio la parola cháris) che gli dèi fanno al colpevole perché recuperi il senso di ciò che ha fatto.
«Zeus, chiunque tu sia»: è questo il dramma dell’uomo pagano: la percezione di un divario insuperabile fra desiderio di capire e impossibilità di una risposta. La ricerca umana, per quanto attenta e impegnata, permette di percorrere pochi passi, soltanto abbastanza per accorgersi che ci sta inoltrando nell’abisso buio e sconfinato di cui si diceva all’inizio. Anche il cristiano riconosce che non può addentrarsi nel mistero dei progetti di Dio e pretendere di capirne il senso: ma può vedere una luce alla fine dell’abisso, perché, a differenza del poeta pagano, il cristiano, per Grazia del Creatore che si è rivelato a Lui, conosce il nome e il volto di un Dio che non si nasconde più: non è più un “tu, chiunque tu sia”, ma è un “tu” ben definito.